Sono tempi duri per la sanità. Dalla pubblicazione del decreto alla sua entrata in vigore erano trascorsi appena tre giorni. E’ servito meno tempo – 24 ore – perché il Tar decidesse prima di sospendere, poi di revocare la sospensiva del nomenclatore tariffario che, specie nelle regioni sottoposte a “Piano di rientro”, manda in crisi le strutture private convenzionate. Non solo riducendo in maniera drastica (dal 15 al 20 per cento) i rimborsi per le prestazioni erogate a fronte di un aumento dei costi (da qui la richiesta di sospensiva da parte dei privati); ma anche ingolfando i sistemi di prenotazione ed erogazione. Già a partire da oggi.

Il “balletto” di fine anno tra governo nazionale e giudici amministrativi ricade su laboratori analisi e ambulatori specialistici, per non parlare dei medici di base “prescrittori”. A pagare le asinerie o la fretta di un governo inadeguato (ma prepotente), in sostanza, saranno gli addetti ai lavori. Con ricadute inevitabili: non solo molte strutture convenzionate – che in Sicilia, già a novembre, esauriscono il budget annuale assegnato – si ritroveranno a licenziare personale o a dover consegnare le chiavi per l’impossibilità di poter lavorare; ma anche i cittadini, come inevitabile riflesso di queste incertezze, potrebbero risentire di un accesso limitato ai servizi. Specie nelle regioni, come detto, che non possono garantire un aumento dei livelli delle prestazioni perché sottoposti al perentorio controllo (e ai divieti) del governo di cui sopra.

Ma entriamo nello specifico. Da oggi, con l’introduzione del decreto Schillaci, servono aggiornamenti significativi nei sistemi di prenotazione ed erogazione delle prestazioni. La transizione non c’è stata, da qui – a cascata – le prime difficoltà: in mancanza di adeguato aggiornamento, ad esempio, i sistemi informatici potrebbero non riconoscere le tariffe e i codici di codifica, causando l’impossibilità di prenotare esami e prestazioni, con conseguenti disagi per i pazienti (su tutte la compromissione dell’accesso a determinati servizi). Inoltre, la mancata sincronizzazione tra nomenclatore tariffario e software di gestione potrebbe creare disallineamenti tra le diverse regioni o Asp, generando disparità nell’erogazione dei servizi. Alcune strutture potrebbero decidere di sospendere temporaneamente l’erogazione di determinate prestazioni in attesa di chiarimenti o aggiornamenti, peggiorando ulteriormente i tempi di attesa.

Sarebbe servito un periodo di transizione. Ma la Sicilia, spiazzata di fronte al tempismo di Palazzo Chigi, è tra quelle che non ha potuto beneficiarne. Il rischio, inoltre, è ingolfare tutto a monte: se i sistemi non risultano aggiornati correttamente, i medici di base potrebbero continuare a utilizzare codici o tariffe obsolete, portando a prescrizioni non valide o rigettate dalle strutture sanitarie. Questo potrebbe costringere i pazienti a tornare dal medico per correggere la prescrizione, causando ritardi e disagi. I medici, inoltre, potrebbero non avere accesso alle nuove tariffe o alle informazioni aggiornate su esami e trattamenti, limitando la loro capacità di prescrivere determinati accertamenti o cure. Ciò potrebbe compromettere la tempestività delle diagnosi e dei trattamenti. Per non parlare dei “tempi morti” che i prescrittori dovrebbero dedicare alla burocrazia anziché all’attività clinica.

Il governo nazionale, che è certamente al corrente dei rischi potenziali, non ha preso alcuna precauzione. Piuttosto, ha incaricato l’Avvocatura dello Stato a presentare immediato ricorso contro la decisione del Tar, che sulla scorta di un ricorso, aveva deciso di sospendere il nomenclatore per la “carenza istruttoria, la mancata considerazione dell’andamento dei costi produttivi e le criticità giuridiche e metodologiche del decreto”. La questione è rientrata a fronte della “dichiarata gravità delle conseguenze della sospensione del decreto che determinerebbero il blocco del sistema di prenotazione ed erogazione” dei servizi “con un impatto sulla salute dei pazienti”. Quel blocco, nelle regioni meno avanzate, ci sarà comunque. Così come l’impatto sulla salute dei pazienti, in attesa che i sistemi – certamente meno redditizi per i professionisti della salute – vengano aggiornati.

Il rischio è non venirne più a capo, o comunque di farlo troppo tardi. Quando i buoi saranno scappati dalla stalla. A meno che la Regione siciliana, nel frattempo non faccia il miracolo. Come? Ridiscutendo con Palazzo Chigi la portata del Piano di rientro dal disavanzo sanitario, che da 18 anni costringe piazza Ottavio Ziino a muoversi sulle uova, senza la possibilità di versare un euro in più per l’implementazione dei servizi offerti. Nelle regioni più evolute è accaduto che i governi del posto riuscissero a sopperire ai tagli operati da Schillaci e dal suo nomenclatore con soldi a valere sul bilancio regionale. Un investimento per la salute, ma anche sugli operatori del settore (che, va ricordato a scanso di equivoci, implementano un sistema sanitario che altrimenti collasserebbe). Se il presidente Schifani dovesse assumersi l’onere e l’onore di venire a patti con il ministro Schillaci e con la premier Meloni, rinegoziando i termini di quel “piano”, potrebbe davvero proiettare la sanità siciliana verso la modernità, nel solco dell’efficienza. Significherebbe garantire cure tempestive e agire nell’ottica di una maggiore integrazione fra pubblico e privato. Con inevitabili riflessi sui cittadini. Serve coraggio e determinazione, anche se l’impresa è titanica.

Inizialmente, il piano di rientro della Sicilia copriva il triennio 2007-2009. Tuttavia, a causa del persistere di disavanzi significativi, la Regione ha proseguito con programmi operativi triennali successivi, come previsto dalla normativa nazionale, per completare gli obiettivi di risanamento. Ma questi obiettivi non sono stati ancora raggiunti. E nessuno è in grado di stabilire quando ciò avverrà. Fino ad allora, la Regione non potrà investire in sanità un solo centesimo in più rispetto a quanto pattuito con lo Stato. Anche se quei soldi dovessero contribuire a salvare delle vite.

Lo ha stabilito, fra l’altro, una recente sentenza della Corte Costituzionale, la n.197 del 13 dicembre, con cui i magistrati hanno dichiarato “l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge numero 3 del 2024, che incidevano sui limiti di spesa, a carico del bilancio regionale, relativi alle prestazioni sanitarie”. La Regione aveva provveduto a un adeguamento tariffario del 7% per le prestazioni erogate da strutture riabilitative per disabili psico-fisico sensoriali, comunità terapeutiche assistite, residenze sanitarie assistenziali e centri diurni per soggetti autistici; e a un adeguamento tariffario fino al 2% per le prestazioni dei centri dialisi. “L’aumento delle tariffe, previsto a carico del bilancio regionale, non è in linea – ha precisato la Corte – con i valori nazionali di riferimento e si traduce in una spesa sanitaria ulteriore rispetto agli esborsi concordati in sede di approvazione del Piano di rientro, dal quale discende la cornice economico-finanziaria in cui la Regione è tenuta a muoversi”. Ecco, bisogna modificare questa cornice. Sarebbe un gran risultato per tutti. Anche se oggi costituisce prevalentemente un’utopia.