Cinquant’anni di storia politica riassunti in un volume da 232 pagine: si chiama “Un giovane della Prima Repubblica” e verrà presentato questo pomeriggio, alle 17.30, alle Terrazze di Mondello. Il giovane in questione è Totò Cardinale, che nella sua vita ne ha viste parecchie: è stato sindaco, uomo d’apparato, Ministro delle Comunicazioni. Ha fatto tutto, ma mai il contrario di tutto. Perché la sua attività, piena di “rinunce e sacrifici”, come dice lui, si è snodata lungo l’asse della Democrazia Cristiana, il partito a cui si è legato indissolubilmente, che oggi lo porta a non credere (“E’ un tentativo disperato”) a coloro che vorrebbero riesumarla solo esponendone il simbolo.
Cardinale è uomo ancorato al passato, di cui va fiero; ma è anche il “notabile” che negli ultimi anni ha messo lo zampino nei governi Crocetta e nella virata al centro del Pd; che prima ha accolto Matteo Renzi, e poi se n’è allontanato, contestandone l’ego smisurato: “Non si aggrega a partire da un nome, ma sulla base di valori e di principi. Il leader deve conquistare la sua leadership ogni giorno, non puoi crearne una con criteri “bloccati”, col rischio che domani butti le carte in aria e chiudi la porta, come dicono a Firenze”. Non che Cardinale non abbia sfruttato le numerose porte che gli ha spalancato la politica (“Io gestivo il potere anche prima di diventare Ministro. Il mio segretario di partito era un certo Calogero Mannino”), ma raccomanda a tutti di dare un ordine alle priorità: “Prima viene il Paese, poi il partito, e infine l’ambizione personale”.
Onorevole, perché ha scelto di raccontarsi in un libro?
“A motivarmi è stata la nascita di mia nipote, fin qui l’unica. Ho fatto un lungo esercizio di memoria, perché nell’arco della mia vita non ho preso molto appunti, sono sempre stato disordinato. Ho pensato che Vittoria, da grande, avrebbe voluto conoscermi. Così ho scelto di farle questo dono”.
Il suo è un lungo viaggio. Riesce a riassumerlo in poche battute?
“Nel libro provo a ragionare attorno all’impegno politico di una vita. Parlo di un giovane che, dopo aver frequentato l’Azione Cattolica, entra nel movimento giovanile della Democrazia Cristina e diventa uomo, percorrendo tutte le strade. Un ampio capitolo è dedicato alla riforma agraria degli anni ’50, alla lotta per l’assegnazione delle terre incolte, che io osservavo dalla prospettiva di un ragazzino discolo che seguiva il padre, un ufficiale giudiziario, gestire le lottizzazioni nel territorio di Mussomeli per conto dell’Eas. Quella riforma si rivela un fallimento, un’occasione persa per la Sicilia. Poteva nascere una nuova classe di imprenditori agricoli, invece il suo fallimento determinò una disoccupazione crescente e una migrazione sempre più violenta”.
Qual è il rapporto più intenso della sua carriera politica?
“Quello con Francesco Cossiga, un personaggio di grande spessore morale e intellettuale, ma con qualche sbalzo umorale che ho imparato a gestire per non perdere la mia autorevolezza di uomo di governo e di ministro del popolo. E’ lui che mi ha voluto responsabile delle Comunicazioni al tempo delle grandi sfide internazionali. Raccontare del rapporto con Cossiga è stato molto divertente”.
E qual è invece l’episodio più curioso?
“Una volta andai in Canada per incontrare il Ministro delle Poste. Non parlavo l’inglese, quindi mi organizzai con un traduttore. Ma quando arrivò, il ministro, con mia grande sorpresa, si avvicinò per salutarmi: “Ciao paisà”. Si chiamava Alfonso Gagliano. Era di Siculiana, a 50 chilometri da casa mia”.
Lei è stato ministro con D’Alema prima e con Amato poi. Che ricordo ha di quell’esperienza?
“Ho capito davvero cosa fosse la gestione del potere, quello vero, che ti misura la temperatura, la capacità di riflettere, di ascoltare e di rischiare. Nei primi mesi è stato complicatissimo: le Poste avevano sei mila miliardi di debiti, la Telecom stava per portare i libri in tribunale, la Rai era in crisi. Pensai che forse avevo sbagliato a non valutare altre soluzioni di governo. Ma poi, partendo dalla mia formazione e rendendomi conto che da solo non potevo fare nulla, mi sono circondato di tecnici di grande valore, non ho accettato diktat da parte di nessuno, ho maturato scelte importanti e ho osato, nel senso che ho rotto gli indugi e lavorato energicamente per creare le condizioni affinché il Paese avvicinasse le altre potenze europee e mondiali nel campo della telefonia, delle televisioni e nella fruizione del web. Quando arrivai al governo, circa 250 mila persone navigavano su Internet, quando andai via erano diventate 18 milioni”.
Esiste un erede politico di Cardinale? O uno che possa incarnare meglio di altri il suo spirito democristiano?
“Vede, io non sono mai stato un monarca. Ho sempre condiviso le decisioni. Talvolta – in realtà, molto raramente – le ho fatte digerire a quelli che mi stavano intorno e che magari non erano d’accordo. Abbiamo sviluppato capacità di ascolto e di confronto, pesante, faticoso ma assolutamente costante fra tutti. Se guardo al panorama di oggi, invece, vivo in uno stato di apolidia. Non c’è un luogo in cui poter raccogliere gli amici che tutti i giorni mi chiedono “cosa possiamo fare”. Da un lato abbiamo il Pd che, però, tiene la barra a sinistra, tradendo l’impegno che avevamo assunto tutti insieme, cioè creare un soggetto libero dai condizionamenti del passato; dall’altro c’è il fallimento di Renzi, che si aggiunge alla partita come un fatto depressivo. Ma lei mi ha chiesto di indicarle un politico che mi piace. Qui in Sicilia le faccio il nome di Edy Tamajo, un giovane di belle speranze che anch’io ho provveduto ad allevare”.
A proposito di Tamajo: è passato da Sicilia Futura a Italia Viva, la nuova creatura di Renzi. E’ un esperimento che si è già sgonfiato?
“Per me non c’è mai stato. Il progetto di Renzi era Renzi, punto. Non ha capito che bisognava uscire da una condizione di ego ipertrofico. Un soggetto di centro deve parlare ai cittadini, farli sentire protagonisti e ascoltati in un processo democratico che non vede solo pochi uomini al comando, e per di più che non forniscono spiegazioni per le cose che fanno… Ecco perché sin dall’inizio ho dichiarato che Italia Viva non fosse il luogo dove far convergere gli amici che me lo chiedevano. Ovviamente li ho lasciati liberi di fare”.
Però ha già detto che il Pd non è l’alternativa. Esiste un’alternativa?
“Salvini, anche dal punto di vista del gergo comunicativo, usa espressioni forti, cavalca questioni populiste che non stanno né in cielo e né in terra. L’accoglienza è un valore irrinunciabile. La sua posizione rende pure la Meloni, donna intelligente ma espressione della destra più dura, quasi moderata. E poi c’è Berlusconi, che oggi viene rivalutato come politico e che secondo me, data l’età e il tempo trascorso alla guida di Forza Italia, potrebbe mettersi in discussione e aiutare, da statista qual è, una nuova classe dirigente a venire fuori e occupare uno spazio che oggi non ha protagonisti in grado di temperare la politica. Il centro è luogo del confronto, della discussione, dell’ascolto, in cui si risolvono i problemi senza enfatizzarli. Ecco: Berlusconi potrebbe pensare a un nuovo soggetto politico capace di muoversi sul terreno del riformismo laico, liberale, risorgimentale e cattolico. Prima o poi verrà fuori un Cavour, capace di tessere una trama, e ridare uno spazio e una speranza a quanti vogliono una politica ragionata e non gridata, fatte di proposte e non solo di proteste”.
Ci sarebbero già le sardine. Ma non sono un partito…
“Dimostrano quanta esigenza ci sia di stare insieme, riunirsi, senza oltraggiare o violentare. E’ un fenomeno positivo, ma anche un fatto pneumatico, meccanico che deriva da una posizione opposta a quella della politica gridata. Noi abbiamo responsabilità e doveri, abbiamo un Paese che non vive dentro le sue mura, ma all’interno di un processo globalizzato, che mette a confronto l’Italia col resto del Mondo. Volersi chiudere in uno stato sovrano e utilizzare queste espressioni populiste, che tendono a sollecitare il dissenso, non può essere una politica che dura. Ma una politica che isola, che fa rischiare molto all’economia e alla democrazia del paese. C’è tanta gente – e le sardine lo dimostrano – che vuole ragionare, essere ascoltata, dire la sua, vuole un Paese capace di affrontare le questioni e i problemi con serietà e impegno, senza la logica del tanto peggio tanto meglio”.
C’è chi sta provando a rimettere in piedi la Democrazia Cristiana. Sono Cesa e Rotondi, che dopo domani presenteranno anche a Palermo il PPI, il Partito del Popolo Italiano.
“Ero stato invitato anch’io al debutto romano, ma ho spiegato che per me non era la soluzione migliore. Poi ho visto un servizio in tv e mi sono rattristato: se fossi andato sarei stato uno dei più giovani… Il rischio è che operazioni come queste rischiano di apparire nostalgiche, un tentativo di ricollocamento quando si tornerà a elezioni. Io sono amico di Cesa, ma escludo che una proposta presentata in questi termini sia la soluzione al problema. Anzi, mi pare una mossa avventata, un tentativo disperato. Ci provarono Andreotti, quando uscì dalle vicissitudini giudiziarie, e D’Antoni, della Cisl, a inizio anni duemila (si chiamava Democrazia Europea, ndr): fu un fiasco. Non basta riproporre il simbolo della Dc per avere successo”.
Avrebbe mai pensato che la Lega, un giorno, sarebbe entrata all’Assemblea regionale?
“Non è entrata dal portone principale, dato che nel 2017 venne eletto un solo deputato, poi fuoriuscito. Ma la Lega, sulla scorta di una nuova missione che l’ha vista mutare da partito regionalizzato a partito nazionale, sta raccogliendo parlamentari che possono animare una proposta politica. Anche in quelle realtà, come la Sicilia, in cui finora non ha avuto molto successo. Ogni tentativo di animare il dibattito politico va apprezzato e stimolato. E poi questi deputati leghisti parlano con una certa grazia, danno di sé un’immagine molto moderata, quasi di centro”.