Per molto tempo il rapporto tra digitale e analogico è stato visto come una contrapposizione: smartphone o telefono a conchiglia, iPad o carta, mp3 o vinile. Bianco o nero, prima o dopo, una logica viziata proprio dalla rigidità del codice binario, cioè da un alfabeto composto da due soli simboli (zero e uno), una logica nemica delle complessità e delle sfumature della vita reale. Partiamo da qui per capire il senso di una controrivoluzione lenta ma costante che sta riportando il mondo nella carreggiata dell’analogico: non si tratta di contrapposizione, ma di equilibrio instabile.
Il 21 aprile scorso si è celebrata in tutto il mondo la decima edizione del Record Store Day, una giornata dedicata ai negozi di dischi e in quell’occasione la Federazione industria musicale italiana ha reso noti i numeri del vinile in Italia: oggi il mercato vale quasi 13 milioni e mezzo di euro, una crescita vertiginosa se pensate che nel 2012 ne valeva poco meno di due. E le prospettive appaiono rosee se è vero che il 23 per cento dei consumatori di musica ha acquistato almeno un disco in vinile nel 2017 e il trend è già salito al 31,8 nel primo trimestre di quest’anno.
Il 33 giri è il simbolo del bene analogico e della sua ingiusta sottovalutazione nel lungo periodo dell’abbaglio ipertecnologico con conseguente strapotere dell’mp3. Basti pensare al mito del file immortale che umiliava il vinile, i suoi fruscii e la sua deteriorabilità. Ebbene, se volete chiarirvi le idee una volta per tutte fate un esperimento. Ripescate qualche vecchio floppy disc, provate a trovare un apparecchio in grado di leggerlo o a farlo funzionare col vostro computer: probabilmente non ci riuscirete. Poi tirate fuori il vecchio ellepì dei Pink Floyd “The dark side of the moon” (da tempo il più venduto dei vinili in Italia), mettetelo sul piatto di un giradischi degli anni ’70, accendete l’amplificatore degli anni ’80 e ascoltatelo con casse del 2000. Vedrete che non ci saranno intoppi.
L’errore più grave che si può fare nel valutare il cambiamento è derubricarlo a operazione nostalgia, quando in realtà si è di fronte al risultato di più forze sociali ed emotive. Innanzitutto la paura crescente per l’eccessiva automazione del lavoro che, secondo un sondaggio del Pew Researc Center, attanaglia oltre il 70 per cento degli americani. L’ultimo ventennio di crescita digitale ha visto cinque pionieri tecnologici degli Usa (Apple, Microsoft, Oracle, Intel e Cisco) mettere in cassa oltre tremila miliardi di dollari. Ma al contempo il potere contrattuale dei lavoratori nella Silicon Valley è rimasto minimo. E c’è una ragione aritmetica: i dipendenti di questi colossi sono relativamente pochi. A Google lavorano 88mila persone, a Facebook 23mila persone, mentre, per fare un paragone efficace, alla Fiat Chrysler se ne contano 234mila.
Poi c’è la diffidenza sulla gestione (quantomeno misteriosa) dei dati personali. Secondo il giornale online statunitense Quartz solo il 21 per cento degli utenti di Facebook si fida dell’azienda di Mark Zuckerberg, che per rilanciare dopo lo scandalo Cambridge Analytica ha pensato bene di investire in una nuova funzione di dating, cioè di incontri tra sconosciuti: della serie dopo aver connesso il mondo, lo vuole fare pure innamorare.
Inoltre c’è un timore diffuso per la salute che emerge da uno studio dell’American Psychiatric Association, per la quale quasi la metà dei nati tra il 1980 e il 2000 è preoccupato per gli effetti negativi dei social network sul proprio stato fisico e mentale.
Uno dei profeti di questa controrivoluzione è David Sax, giornalista canadese autore del libro-inchiesta “La rivincita dell’analogico”: “L’analogico a differenza del digitale possiede limitazioni fisiche: le dimensioni di un quaderno, il numero di foto che si possono realizzare su un rullino, eccetera. Tendiamo a considerare i limiti come qualcosa di negativo, ma sono un fattore di forza nel processo creativo. Il digitale invece è illimitato ma può essere paralizzante. Altro vantaggio è quello sensoriale: noi umani abbiamo mani, bocca, occhi, orecchie, sensi che non sono del tutto coinvolti mentre tocchiamo un piatto pezzo di vetro sullo smartphone. Se si disegna qualcosa su un foglio di carta invece i sensi sono più coinvolti e la ricompensa è una maggiore creatività”.
A tutto ciò Sax aggiunge un’altra componente emozionale: “Quando li compriamo, questi oggetti analogici, sappiamo che resteranno con noi, così come quando si scrive qualcosa su un quaderno si sa che resterà lì. L’intuizione di Maria Sebregondi, l’ideatrice della Moleskine, è nata proprio guardando due mostre di Picasso e Hemingway dove erano esposti i loro taccuini”. Dal Think Different futuristico della Apple di Steve Jobs a un Think Tank prudenziale che metta in sicurezza le nostre origini, il passo è breve.
Il ritorno al digitale è una tendenza globale come le sue cause. Secondo l’Edelman Trust Barometer edizione 2018 in 28 Paesi la fiducia nei media tradizionali, come i giornali, è in crescita mentre i social network sono in calo. Si tratta di una tendenza pressoché omogenea nelle democrazie occidentali, con casi più evidenti in Francia, Germania, Gran Bretagna e Usa e che ha come cause evidenti il dilagare delle fake news e le falle nei sistemi di gestione dei dati personali da parte dei giganti della comunicazione istantanea globale.
La controrivoluzione riguarda anche i libri. Considerando quelli di carta, ebook e audiolibri, il fatturato delle case editrici in Italia nel 2017 è aumentato del 5,8 per cento rispetto all’anno precedente e ha sfiorato 1.500 miliardi di euro. Il dato dell’Associazione italiana editori non tiene conto delle copie vendute attraverso Amazon, che non fornisce informazioni in tal senso. Ma dal dedalo di numeri che danno una certa fiducia – lo scorso anno sono state vendute 88,6 milioni di copie, l’1,2 per cento in più rispetto al 2016 – emerge una novità: per la prima volta negli ultimi sette anni si è registrato un aumento nelle vendite dei libri di carta.
In Italia David Sax si è occupato, tra le altre cose, anche della Film Ferrania. La fabbrica, sorta nel 1923, ha prodotto il supporto per gran parte dei film che hanno fatto la storia del cinema italiano e, a causa della crisi, nel 2006 ha chiuso il settore fotografico. Oggi, grazie a una startup, la Ferrania rilancia: la pellicola ha un pubblico di appassionati, puristi o semplici neofiti stanchi dei filtri digitali e è a loro che si rivolge il nuovo progetto di rinascita.
Il terreno su cui la rivoluzione digitale ha seminato alcune tra le maggiori sorprese è quello dei video. Oggi grazie a potenti telecamere integrate anche il più economico degli smartphone è in grado di registrare immagini in alta definizione, modificarle e inviarle in pochi secondi dall’altra parte del pianeta. Desta quindi molta curiosità il piano della Kodak che ha annunciato l’arrivo di una versione da terzo millennio della storica cinepresa Super 8. Il progetto arriva in un momento molto delicato per l’azienda che alla fine dello scorso anno ha tagliato 425 posti di lavoro, ed è un compromesso tra antico e moderno. Da un lato un display che mostra l’anteprima di ciò che si sta riprendendo, dall’altro la cartuccia 8 mm sulla cui pellicola quale verrà impresso il tutto. Con un prezzo annunciato abbastanza alto, si parla di due o tremila dollari, questa nuova Kodak Super 8 cede molto alle tentazioni del vintage, quindi della moda, e ci dà conferma del fatto che il tempo e i tempi non si misurano con lo stesso orologio. Negli Usa il web ci ha messo 8 anni per raggiungere il cinquanta per cento della popolazione quando il pc ne aveva impiegati 17, la tv via cavo 39, il telefono 70.
Rapidità, praticità, comodità non sono qualità sulle quali fondare previsioni a lungo termine. Non si spiegherebbe altrimenti la fortuna del libro di carta che odora di inchiostro e colla, che occupa spazio sullo scaffale e, pensate un po’, s’impolvera pure. I limiti dell’analogico, un tempo giudicati insopportabili, diventano l’ancora di salvezza rispetto alle facili manipolazioni del digitale: chiunque può corrompere un file anche a migliaia di chilometri di distanza, mentre pochissimi potrebbero mettere mano all’agendina chiusa a chiave nel cassetto.
Certo, poi c’è chi come Tom Hanks, affascinato dal rumore dei tasti della macchina da scrivere e dal fascino rétro dei font del tempo che fu, si è inventato un’applicazione che trasforma l’iPad in uno strumento per dattilografi. L’app si chiama Hanx Writer e regala la suggestiva quanto superflua illusione di scrivere a macchina senza la noia del principale degli inconvenienti: il ricorso all’uso del bianchetto in caso di errore.
Qualche anno fa Nick Bilton, allora commentatore del New York Times, aveva una rubrica che si chiamava Disruptions, parola che indica i capovolgimenti spesso traumatici quando una nuova tecnologia ammazza quella vecchia. Dopo lunga militanza nel partito della modernizzazione a tutti i costi, dovette pentirsi per le sue tante previsioni sbagliate in campo tecnologico. “Il problema – scrisse – è che le tecnologie obsolete stanno tornando una dopo l’altra a infestare il mondo moderno. Avevo previsto che l’iPad avrebbe ucciso il Kindle e mi ero sbagliato; avevo previsto che gli ebook avrebbero spazzato via i libri di carta e io stesso ho ricominciato a leggere volumi fisici, perché alla lunga degli ebook non ne potevo più. Com’è possibile che le regole basilari dell’innovazione (prodotto nuovo scaccia prodotto vecchio) siano sovvertite in modo così plateale?”.
Una risposta semplice potrebbe arrivare da Google, non digitando la domanda sul motore di ricerca, ma osservando quel che accade durante i brainstorming dei suoi designer. Da qualche anno è stato richiesto agli esperti di Mountain View di usare carta e penna durante le riunioni creative poiché si è dimostrato che in questo modo vengono fuori idee più interessanti e utili rispetto a quando si digita su un tablet o su un computer. E ciò perché, come si dice, la penna in fondo è una stampante collegata direttamente al cervello, ma è anche scettro, spada, bacchetta magica e persino preziosissimo giocattolo (pensate all’effetto psicologicamente benefico dei ghirigori) .
E non è nostalgia ma resistenza. Nel suo libro “Retromania” Simon Reynolds scrive: “Siamo diventati vittime della nostra inarrestabile capacità di immagazzinare, organizzare, utilizzare istantaneamente e condividere una quantità smisurata di dati. Non è mai esistita una società non solo tanto ossessionata dai prodotti culturali del suo passato più recente, ma anche tanto capace di accedere al passato immediato”.
In un epoca di strabismo temporale il passato è quindi qualcosa di immediatamente presente giacché la memoria non è manco la nostra ma quella del telefonino usato come serbatoio di giochi e lavoro, di superfluo e fondamentale, di vero e falso, di scienza e incoscienza. Non a caso il simbolo di questo ritorno alle origini è comunque un oggetto tecnologico, ma di una tecnologia che non schiaccia con la sua sovrabbondanza, e che tiene lontano il “mal d’archivio” di Jacques Derrida: il Nokia 3310 che 18 anni fa fu venduto in 126 milioni di esemplari. È stato rimesso sul mercato in una versione quasi uguale a quella iniziale e in Italia ha venduto quasi 70mila pezzi. Fa il suo lavoro di telefono e si collega pure a internet. Ma soprattutto non fa altro.