Nel fronte anti-Schifani nato all’Assemblea regionale, e consolidato dall’esperienza del sindaco di Palermo Roberto Lagalla, si annida il “nemico” numero uno del governatore. Cioè l’ex commissario regionale di Forza Italia, uno che quel partito aveva contribuito a fondarlo, e che è rimasto in trincea per un trentennio nonostante le correnti avverse. Il nome di Gianfranco Micciché, negli ultimi mesi, era ripreso a circolare solo per l’accusa di peculato che gli è costata il rinvio a giudizio da parte della Procura di Palermo: si presenterà in tribunale il 6 novembre per spiegare l’utilizzo dell’auto blu. Ma oggi Miccichè ha un presente e, forse, un futuro politico. Su cui nessuno avrebbe scommesso.

A offrire a Micciché l’assist per tornare in campo, dopo la dichiarazione di guerra a Musumeci che gli era costata l’emarginazione dentro il centrodestra, è stato il vicerè in persona: coi suoi comportamenti da “bullo” (citazione di Davide Faraone), e una vocazione all’esclusione, ha finito per dare ragione a chi -immediatamente- ne ha denunciato i soprusi (siamo sempre nella sfera politica). Micciché era stato il primo, all’inizio di questa legislatura, a doversi sorbire i rancori e le rivincite dell’ex presidente del Senato. I festeggiamenti per l’elezione di Schifani, nell’autunno di due anni fa, rappresentano l’ultimo momento di condivisione politica, il presagio cupo di quello che avverrà dopo. Dall’indomani. La richiesta di Micciché di veder rappresentare Forza Italia (era ancora commissario) all’assessorato alla Sanità diventa il preludio per uno scontro aspro, in aula e sui giornali; e crea le premesse per un’implosione del partito che ancora oggi si dimostra in confusione e vittima della sua paura di esprimersi.

Schifani convinse persino Berlusconi, nella primavera del 2023, che era necessario cambiare timoniere. All’epoca aveva già esercitato il suo fascino d’imperatore sulle truppe mercenarie, creando all’Ars una spaccatura insanabile (Forza Italia 1 vs Forza Italia 2) e lasciando Micciché con pochissimi deputati al seguito che non poterono garantirgli la sopravvivenza del gruppo (Galvagno lo privò della deroga): le pressioni furono talmente spudorate da convincere persino i fedelissimi – come il nisseno Mancuso e il catanese D’Agostino, ma anche l’ex assessore Scilla è stato ripagato con una ricca consulenza – a prendere la via di Orleans, in cerca di uno strapuntino. Micciché, travolto dalle intercettazioni e dalla storia della cocaina, inseguito coi Gps piazzati sull’auto di servizio, colpevolizzato per aver accompagnato il gatto dal veterinario, sembrava destinato alla linea dell’orizzonte, prossimo a sparire. E per un periodo le sue invettive, dure e decise contro i metodi del governatore, non trovavano una cassa di risonanza degna del suo personaggio.

Emarginato, seppellito, criminalizzato. Ha sostenuto il peso dell’umiliazione, sopportato in silenzio e atteso che si creassero le condizioni per riemergere dall’oblio. L’occasione è arrivata alla vigilia delle ultime Europee, con una scelta di rottura: sostenere, dentro Forza Italia, la candidatura di Marco Falcone (con cui, in passato, erano stati più gli screzi dei complimenti) e Caterina Chinnici, cioè quelli che Schifani ha scelto deliberatamente di trascurare. E di oscurare. Le “anime nere” di una Forza Italia sempre meno azzurra, affidata alle cure del suo maggiordomo e con imprinting presidenziale: ‘qui comando io’ (e al massimo il mio cerchio magico). Attorno alla scelta di Miccichè, ora come allora, si ritrovano altri celebri esponenti del partito: da Giorgio Mulé, vicepresidente della Camera che si è battuto per il suo reintegro; passando per il deputato Tommaso Calderone, che nel 2022 era stato vittima di un tentativo di “raggiro”, quando una parte del gruppo di Forza Italia all’Ars, in una notte, aveva deciso di nominarsi un altro capogruppo (Mario Caputo). Già si affinava il metodo…

Ma chi ha riaperto le porte della politica ‘attiva’ a Micciché, oltre all’errore di strategia di Schifani, è stato Raffaele Lombardo, che gli ha concesso di aderire al suo gruppo parlamentare, evitando il purgatorio del misto. Oggi, assieme a Lagalla, sono interpreti di una federazione che nessuno – tanto meno Schifani – sta avendo la forza di contrastare (e contestare). Il governatore sonda i salotti romani per capire che aria tira, ma non si sogna, non ancora, di intervenire nel merito. Suppone che il nuovo asse gli sia ostile. “Il Mpa ed anche Miccichè e Lagalla – ha detto Lombardo – hanno contribuito in misura consistente al successo di Forza Italia e della sua dirigenza regionale votando alle europee Caterina Chinnici ed impedendo quindi la figuraccia di portata europea che la sua mancata elezione avrebbe comportato a FI e ad Antonio Tajani in particolare”. Segno che Tajani – che il 27 e 28 ottobre sarà a Santa Flavia con la kermesse del partito: ahi che rischio – possa essere riconoscente all’operato dei due reprobi. Nonostante Renato, avrebbero mantenuto un impegno assunto con il segretario nazionale e sono considerati un valore aggiunto. Ma solo per alcuni. Non di certo per il presidente della Regione, sempre più affine ai patrioti di Fratelli d’Italia, né per il suo ventriloquo e l’altro portaordini (il capogruppo Stefano Pellegrino), che continuano a considerare il partito una struttura a compartimenti stagni, da poter umiliare a piacimento.

Di Lombardo e Micciché si libererebbero volentieri, ma non possono: fanno parte entrambi di una coalizione litigiosa, che rischia di venire giù come un castello di carta al primo ‘voto segreto’. Rinunciarvi a prescindere sarebbe un’operazione folle. Così come non tenere conto delle loro richieste: intanto programmatiche (Ast, aeroporto di Catania, enti locali, sanità) poi sul numero degli assessori spettanti al Mpa. “Alle ultime regionali – ha ricordato sommessamente Lombardo – abbiamo raccolto il 6,8%, come la Lega e quasi la metà di FI (14,5%) e un po’ meno della metà di FdI (15,1%)”, evidenziando la necessità di “confrontare il dato con le responsabilità in questi due anni assunte”. “Mentre è meglio tacere – ha concluso l’ex governatore di Grammichele – di ignobili insulti, sempre fattuali, che si vanno subendo”. La mancanza di riconoscenza è la cifra della politica; ma la perfidia e l’inganno contengono delle connotazioni “umane” che è persino più difficile accettare.