Forza Italia ha riscritto un comunicato sei volte – chissà quanti amanuensi riuniti attorno al tavolo – per non dire nulla. I due renziani si sono dichiarati “fedeli” al sindaco senza sconfessare l’invettiva di Faraone. Il sindaco Lagalla è riuscito a prendere tempo, ma resta (politicamente) sotto scopa. Schifani ha fatto la parte di quello duro e livoroso, ma il tentativo di colonizzare la giunta, per ora, si è arenato.
Altro che azzeramento. Il cortocircuito al Comune di Palermo, generato dai rancori del presidente della Regione, è durato lo spazio d’una settimana. E si è già esaurito: più che una crisi s’è rivelato una farsa. Una commedia in cui nessuno ha riso, neppure i cittadini che già da lunedì scorso, specie nelle periferie, si ritrovano con l’acqua razionata. Abbiamo scherzato. Ma questo tira e molla ha permesso all’opinione pubblica di costruirsi un’opinione sulle priorità della politica, sull’autorevolezza e la credibilità delle istituzioni, sulla distensione dei rapporti fra sindaco e governatore, che si alimentano di poche, specifiche voci: la Gesap, il Teatro Massimo e il sottogoverno in generale. Per il resto c’è una barriera insormontabile.
I due che hanno spezzato l’impasse, pensando e ripensando alle parole da dettare alle agenzie – anche per uscire da un’aura di anonimato che li ha avvolti fino all’intervento di Faraone – si chiamano Dario Chinnici e Totò Orlando. Il primo è il capogruppo di “Lavoriamo per Palermo”, cioè la costola renziana che, almeno in città, non si riconosce nelle posizioni di Renzi e Faraone; l’altro è assessore ai Lavori pubblici, quello che ha aiutato Lagalla a risolvere la grana dei cimiteri. Rischiavano di fare la fine del sorcio, così si sono tolti d’impaccio con poche ma sentite parole di disincanto: “La nostra presenza nella maggioranza di centrodestra non è legata a nessun partito ed è figlia di un’esperienza civica, legata al sindaco Roberto Lagalla, con cui condividiamo valori e programmi per la nostra città”. Dalla bocca di entrambi non esce una parola di condanna verso le critiche (severe) di Davide Faraone nei confronti di Schifani. Né sull’operato del centrodestra alla Regione. E’ come se disconoscessero, nella stessa Palermo in cui vivono, la presenza del Palazzo d’Orleans o di quello dei Normanni, dove settanta deputati si trascinano stancamente nell’attesa che il governo batta un colpo. Nenti vitti e nenti sacciu.
Un altro grande interprete di questa celebrazione confusa è senza dubbio Marcello Caruso. Che dopo la sentenza di Schifani (“Fuori Italia Viva dal Comune”) ha preso le redini della coalizione, guidando la linea del repulisti e minacciando l’uscita di Forza Italia – il partito di cui è coordinatore regionale – dalla giunta. Alla fine gli è bastato apprendere delle poche righe dei renziani per ritenersi soddisfatto: “Grazie alla forte presa di posizione di Forza Italia a tutti i livelli, si è finalmente sciolto un arcano e fatta chiarezza sulla composizione della coalizione che sostiene l’Amministrazione comunale di Palermo”. Frequentando Schifani ha finito per diventarne la copia (meno narcisa, per carità). Se ci si fida delle dichiarazioni dei due renziani, che abiurano a malincuore Italia Viva, vuol dire che anche la minaccia non era così grave da richiedere un rimpasto. Amen.
A fare specie sono anche le note dei due vicesindaci: uno in carica, Giampiero Cannella, per aver chiesto a Lagalla una verifica urgente (a cui lui stesso, evidentemente, si sarebbe sottoposto); l’altra, la ex Carolina Varchi, per aver ribadito la propria contrarietà, e quella di Fratelli d’Italia, alla politica “dei due forni”. Alla fine anche loro hanno accettato il compromesso di una dichiarazione degli ex reprobi, Chinnici e Orlando, alla stampa. E così rimangono a galla. Ma come potranno, questi personaggi in cerca d’autore, guadagnare consenso da questa messinscena? Come possono uscirne migliori, dopo aver preteso (e fatto credere) di spostare le montagne? Come riusciranno a scampare al girone infernale del “macchiettismo”?
Anche il sindaco Roberto Lagalla rischia di finirci dentro. Prima accetta il rimpasto (con scadenza a gennaio), poi pretende di non essere tirato per la giacchetta, infine “minaccia” di azzerare la giunta. Ma non è tutto: incontra, come rivela un retroscena di Repubblica, anche Lombardo e Micciché, i due più grandi rivali di Palazzo d’Orleans. Forse per farsi rincuorare e gettare le basi di una futura alleanza. Alla fine, preso dalla confusione, non muove un dito. Concorda, semmai, coi suoi consiglieri – cioè i renziani semi-pentiti – una dichiarazione per salvare la pelle. Sua e di loro. Almeno fino al prossimo capriccio del presidente.
Schifani, d’altronde, è il più bravo di tutti e merita applausi, mai una critica. Men che meno dagli amici degli amici. Ogni atto di lesa maestà prevede una ritorsione uguale e contraria. Se questa volta non è arrivata, significa che l’accusa, in fondo, poteva anche essere peggiore. E se Davide Faraone, il reprobo, torna a rincarare la dose dicendo che il Re è nudo? Quale rogo si accenderà al Piano della Marina?