Se l’arrivo di Mario Draghi a palazzo Chigi è stato l’effetto del collasso del sistema politico, nel pieno dell’emergenza pandemica, la sua caduta (di questo si tratta) è l’effetto del suicidio dei collassati. Contro il sentimento popolare, manifestatosi in questi giorni, con la pressante richiesta, salita dal paese (senza retorica: imprese e lavoratori, sindaci ed eroi del Covid, poveri e ricchi) di non aprire una crisi al buio. Si possono provare a ricostruire, a mente fredda, i passaggi tattici che hanno indispettito il centrodestra, dall’incontro a Palazzo Chigi di Letta ai momenti del discorso del premier su catasto, scostamento di bilancio e balneari. Degno corollario di una sindrome da Papeete che, come una malattia infettiva, Salvini è riuscito a trasmettere a Berlusconi, forse perché a villa Grande erano tutti senza mascherina.
Ma non è questo il punto. In perfetta sintonia con le dichiarazioni di Lavrov sul “Donbass” che “non basta”, perché “la fame vien mangiando”, Salvini e Berlusconi come dei lupi che sentono l’odore del sangue, semplicemente puntano sul voto anticipato. Quando ricapita, pensano, un piatto così: una crisi col pretesto dei Cinque stelle, il voto col “camposanto largo” diviso. È il finale perfetto e circolare di una legislatura iniziata con all’afflato gialloverde e la sbornia anti-europeista e filo-russa e terminata con un colpo micidiale a un paese cardine dell’alleanza delle democrazie.
Quelli del Metropol e del viaggio organizzato dall’ambasciata russa al Cremlino, organizzato solo un mese fa, e gli antichi sodali del “lettone” di Putin che regalano lo scalpo di Draghi a chi stappa la vodka e all’ambasciatore Razov, la cui postura aggressiva rivela quanto anomalo considerava un paese inchiodato dal governo Draghi all’alleanza Occidentale, rispetto alle amicizie di un tempo. E se è comprensibile, dal suo punto di vista, la disciplina di Salvini per aver svolto tecnicamente il compito proprio delle “quinte colonne”, lo è meno per Berlusconi che preferisce seguire, come l’intendenza. Altro che leader di un centrodestra che tiene un ancoraggio europeo, con buona pace della retorica sui moderati e sul Ppe, attento alle imprese e ai valori liberali. La casa dei moderati da oggi è altrove.
La giornata di ordinaria follia squaderna uno iato sostanziale. Da un lato c’è un premier, magari rigido – poteva smussare qualche passaggio, rinunciare alla cinta, ma sono dettagli – che in un discorso di verità tiene la coerenza del suo ruolo di garante della credibilità del paese. Dall’altro il “tanto peggio”, l’eccitazione da ordalia elettorale degli altri, che scientemente decidono di non cogliere, nella sua replica, come il premier, nel rivendicare coerenza demolitoria sui provvedimenti cari ai Cinque stelle e sulle loro storture, fa capire come fosse disponibile ad andare avanti senza Conte&Co. La verità è che Draghi si è posto, sia nel primo sia nel secondo intervento, come il garante di una crescita sostenibile, nell’ambito di una tutela dei fondamentali del paese in questo momento storico: Pnrr, agenda sociale possibile, sostegno all’Ucraina, ancoraggio europeo. Non era un discorso per “rompere” ma un discorso di chi è consapevole che, sotto una certa soglia di compromesso possibile, non avrebbe potuto garantire la realizzazione degli obiettivi cruciali del paese, mettendo a repentaglio la credibilità dell’Italia e la missione che si era impegnato a compiere. Continua su Huffington Post