La Palermo dei dolori al pianoforte

Debussy per ricordare un prete ammazzato. Chopin per condannare l’abusivismo selvaggio. Cacciapaglia per diluire le ombre della crudeltà. Morricone per celebrare il risveglio di una periferia. Un pianoforte moltiplicato per oltre sessanta concerti, in trenta luoghi della città, per un totale di più di 90 ore di musica in tre giorni. Piano City è un piccolo miracolo di ingegneria geografica. Nato a Milano ed esportato a Palermo, è un modello estremo di contaminazione culturale: il sottoscritto è parte in causa, dato che il Teatro Massimo è in prima fila nell’ideazione, costruzione e messa su strada di questa incredibile macchina musicale quindi fate tutte le tare che volete a queste parole. Ma se eravate tra le migliaia e migliaia di persone che hanno affollato i concerti non potrete non concordare che la forza di questa manifestazione è proprio nel suo essere globale pur agendo sul minuscolo quartiere, universale pur godendo di dettagli, attuale pur affondando le unghie nella storia.

Palermo non è l’eden, d’accordo, ma è un meraviglioso palcoscenico naturale che fa delle sue contraddizioni e persino dell’eco dei suoi orrori un appiglio per suggestioni che solo l’arte sa imbastire. Così la brutta piazzetta dove fu ucciso don Pino Puglisi diventa suggestiva con un pianoforte piazzato proprio dove il prete cadde, colpito alla nuca; il Castello di Maredolce si mostra in tutta la sua struggente bellezza dopo essere stato strappato all’incuria dell’abusivismo più aggressivo; Sant’Erasmo non è più il porticciolo in cui la mafia svuotava i bidoni d’acido con dentro i cadaveri, ma un piccolo teatro all’aperto dove un grappolo di persone stanno appese alle note di una giovane pianista; la piazza di Danisinni si riempie per un omaggio a Ennio Morricone.

Ecco, Piano City è un sistema di narrazione alternativa che non risolve – l’arte al limite suggerisce – ma sposta l’inquadratura. Spiegandoci, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che i pianoforti non risolvono il problema della munnizza, ma ci sussurrano che c’è altro oltre essa.

Gery Palazzotto per Il Foglio :

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