La mia Antimafia in cerca di verità

Claudio Fava, eletto alle ultime Regionali coi Cento Passi, è il presidente della commissione regionale Antimafia

Nella Commissione Antimafia bolle un sacco di roba: dall’audizione di Fiammetta Borsellino, che ha ribadito la necessità di far luce sul “più grande depistaggio della storia repubblicana”, al caso Montante, che “racconta in controluce cosa è stata la politica siciliana negli ultimi anni”. Claudio Fava, presidente della Commissione e leader dei Cento Passi, rilascia un’intervista ricca di spunti prima di mettersi in viaggio per Vittoria, l’ultimo comune siciliano – in ordine di tempo – a essere sciolto per mafia. Lo fa da uomo libero e di sinistra. Una sinistra che proprio nella città del Ragusano finisce sommersa dallo scandalo.  Perché, se è vero come è vero, che a “pagare” il prezzo del commissariamento siano Giovanni Moscato e una giunta di centro-destra, l’inchiesta parte dall’arresto dei fratelli Nicosia: Giuseppe, da sindaco, ha retto il gioco per due legislature, il fratello Fabio – su cui pende l’accusa di voto di scambio politico-mafioso – si è dimesso da consigliere comunale dopo i primi spifferi. Sono entrambi del Pd.

Il sindaco Moscato ha parlato di grave danno d’immagine. C’è una parte di verità nelle sue dichiarazioni?
“Lo scioglimento non è una decisione presa dal governo dopo aver letto una rassegna stampa. Ma il frutto di un’indagine commissariale durata sei mesi. Lo stupore, sebbene prevedibile, è un vizio d’ingenuità che non può essere tollerato da parte di nessuno. Inchieste recenti raccontano come i processi elettorali del 2016 e del 2011 siano stati fortemente condizionati da un clan dominante come i Carbonaro, attraverso i propri uomini. Ma anche il mercato ortofrutticolo, il più grande di tutto il Mezzogiorno, è un bottino di guerra di alcune cosche che fanno capo alla Stidda. Esiste un cartello d’imprese mafiose che stravolge e condiziona il libero mercato. Questo avviene da anni”.

Anche l’ex sindaco Nicosia ha parlato di “somma ingiustizia”.

“Per lui e per il fratello esistono accuse specifiche. Parlare di “somma ingiustizia” è un modo grossolano di raccontare ciò che sta accadendo. Non possiamo leggere la gravità di un fatto solo se si verifica una strage in piazza. A Vittoria esiste un patto federativo tra clan, dove ognuno gestisce il proprio business. Questo genera una sofferenza per le aziende che sono tagliate fuori dal “cartello”, per molti imprenditori stritolati dai tassi d’usura drammatici”.

Di Maio ha dedicato lo scioglimento del Comune al giornalista antimafia Paolo Borrometi. In questo lo Stato ha vinto o perso la propria battaglia?

“Ha perso. Quando si è costretti a sciogliere un Comune vuol dire che non sei stato in condizione di garantire e tutelare un assetto democratico. La dedica del vicepremier è una vezzosità che racconta meglio di qualunque altro giudizio questa ricerca di effetti speciali tipica del governo dei Cinque Stelle, che in questo modo tende a conquistare la pancia e il consenso della gente. Indicare un giornalista e tacere di tanti altri, che anche silenziosamente provano a raccontare ciò che di innominabile avviene in Sicilia, non è un buon servizio all’informazione”.

Anche Siracusa, con l’arresto del giudice Mineo, si è rivelata ostaggio di forti processi corruttivi. Cosa emerge dal “sistema Siracusa”?

“Intanto, che i magistrati non vivono su Marte. E che la corruzione, la disponibilità al consociativismo o a forme di corporativismo per difendersi tra loro, sono presenti anche tra magistrati. Si tratta di un elemento preoccupante, perché il magistrato di per sé ha una funzione di garanzia che dovrebbe rappresentare il rigore e la tutela delle regole del gioco. Il secondo aspetto della vicenda è che in una provincia apparentemente “babba” come Siracusa, le famiglie mafiose hanno cominciato a condizionare i processi politico-amministrativi. Pensare che in Sicilia ci siano luoghi di relativa tranquillità sociale rispetto alle mire espansionistiche della mafia è un errore di strategia clamoroso”.

Tra i comuni che vivono nel cono d’ombra della mafia, e di un latitante come Messina Denaro, c’è Castelvetrano. Che è stato sciolto un anno fa e fatica ad abituarsi alle nuove “regole”.

“I commissari hanno provato a ripristinare il rispetto di alcune regole elementari in un’amministrazione che ne aveva fatto carne da cannone. Se qualcuno non riesce ad ottenere con la facilità di prima una licenza commerciale o edilizia, perché non valgono più scorciatoie amicali o parentali, ne avrà sicuramente a male. Ma la responsabilità non è dei commissari che stanno cercando di recuperare un buco di bilancio di 24 milioni di euro, ma di chi ha inteso l’azione comunale non al servizio della collettività, ma di alcuni particolarissimi interessi privati. La speranza è che la parte migliore di quella città, la maggioranza, sappia rialzare la testa e faccia sentire la propria voce con attestazioni di solidarietà nei confronti dei commissari”.

Veniamo ai lavori della Commissione Antimafia. Che quadro emerge su Via d’Amelio dopo l’audizione di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, dello scorso 18 luglio?

“Il fatto che il quadro debba essere presentato dalla figlia di un magistrato ucciso è un limite culturale della nostra politica, che invece dovrebbe fare in modo che la verità diventi una pretesa civile, collettiva, di tutti. E non legata soltanto alle vedove e degli orfani. Anche la politica ha il compito di capire e ricostruire, fare storia e memoria. Dopo quella audizione ci siamo sentiti chiamati in causa come istituzione. E, svolgendo un’indagine che non sfori le competenze della magistratura, diventeremo il tramite di tante domande rimaste inevase nel corso di questi 25 anni. Non si tratta di domande inquisitorie, ma che chiedono indietro pezzi di verità nel tentativo di ricostruire il puzzle”.

Non ha fatto mistero della sua maggiore perplessità: ossia il ruolo svolto dai servizi nell’ambito dell’inchiesta.

“L’ingresso a pieno titolo dei servizi d’intelligence nella gestione dell’indagine è una cosa formalmente e sostanzialmente vietata dalle nostre leggi. Ascolteremo tutti i magistrati che lavoravano alla procura di Caltanissetta, i rappresentanti delle forze di polizia e dei servizi e i rappresentanti del governo dell’epoca che autorizzarono, come catena di comando e in difformità rispetto alle leggi, di spostare la governance dell’indagine dai suoi luoghi e dai suoi responsabili naturali. Non vogliamo arrivare a nomi di colpevoli, ma vogliamo sapere se esiste titolo o diritto a ottenere alcune risposte. Vogliamo sapere come sia stato possibile, sul piano istituzionale e delle responsabilità politiche, un depistaggio di questa misura. Borsellino era un magistrato siciliano, è morto in Sicilia assieme alla sua scorta, è stato ucciso perché faceva delle indagini in Sicilia. Merita la ricerca della verità”.

State proseguendo il lavoro anche attorno al “sistema Montante”. Cosa è emerso dalle prime audizioni?

“E’ imbarazzante vedere come molti si siano prostrati al capo di Sicindustria, senza necessariamente riceverne in cambio qualcosa. L’idea di essere benevolenti nei confronti del potere e ricevere da esso luce riflessa è una cosa che tranquillizza. In tutto ciò c’è anche qualcosa di teatrale, ma allo stesso tempo macabro e malinconico: un signore che in una sorta di delirio di onnipotenza trascriveva ogni pensiero, ogni virgola, ogni incontro a futura memoria, costruiva i dossier, si inventava i segreti a casa sua. Al di là dell’apparenza, però, c’è un mondo reale in cui il potere, a prescindere dalla sua legittimazione, piace perché offre pranzi e cene, conduce a braccetto nei salotti che contano”.

E’ anche la prova di un’antimafia che ha fallito?

“E’ la conferma che l’antimafia si è tradotta per anni in una sorta di auto certificazione in nome della quale si pretendevano vantaggi politici, imprenditoriali, istituzionali. Ministri, presidenti, opinionisti, giornalisti, tutti hanno fatto a gara a considerare Confindustria come una struttura che gestiva un potere parallelo ed esterno alla Regione siciliana condizionandone i processi politici e di spesa”.

A proposito di politica. La Commissione Affari Istituzionali dell’Ars ha appena approvato un ddl sulla massoneria che porta il suo nome. Con il quale si impone e deputati e assessori regionali di dichiarare la propria appartenenza alle logge.

“L’adesione a una loggia massonica comporta i doveri di obbedienza e riservatezza, che possono confliggere con le responsabilità che assume un eletto in un’assemblea parlamentare, come quella regionale siciliana. Si rischia di creare conflitto fra l’obbedienza dovuta alla loggia e quella dovuta alle leggi della Repubblica o della Regione”.

Il gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi, ha parlato di atto illegittimo e discriminatorio. Cosa replica?

“Che è un atto totalmente legittimo, lo dicono Consiglio di Stato e Corte Costituzionale. Non si tratta di tutelare un diritto alla privacy, ma un articolo della Costituzione che prevede obblighi, funzioni e doveri di ogni pubblico amministratore o funzionario pubblico. E soprattutto se si reclama riservatezza, obbedienza e segretezza non si può pretendere che di fronte a un mandato elettorale non ci sia poi l’obbligo di svelare se esiste questa forma di obbedienza trasversale. Se non c’è nulla da temere, cosa che immagino per la maggior parte degli iscritti alla massoneria, non c’è motivo di alzare queste lamentazioni. E’ un nervo scoperto che riporta anche ad altri scenari”.

Quali?

“La Sicilia è un luogo in cui la cronaca giudiziaria, non la letteratura, ci racconta come alcuni segmenti della massoneria siano stati occupati da interessi illeciti. Parlo della vicenda della loggia Scontrino, della Iside 2, lo scioglimento del comune di Castelvetrano dove il 30% del Consiglio comunale e il 75% dei componenti della giunta facevano parte di una loggia massonica. Il fatto che nelle stesse logge massoniche si siano trovati rappresentanti delle istituzioni, forze dell’ordine, capimafia ci fa capire che occorre un obbligo di trasparenza, di verità. Non un divieto, quello sì che sarebbe incostituzionale”.

Tracciamo un bilancio dei primi mesi ai vertici della Commissione Antimafia?

“Stiamo lavorando molto, silenziosamente e intensamente, e abbastanza in controtendenza coi ritmi dell’Assemblea regionale. Vorrei che i frutti di questo lavoro non venissero accantonati nell’archivio delle buone intenzioni, ma diventassero parola scritta e materia sulla quale confrontarsi e da offrire il più rapidamente possibile al voto dell’Assemblea”.

Ritiene sia possibile estirpare le pratiche del malaffare dalla Sicilia?

“La capacità corruttiva, oltre a violare la Legge, crea consenso. Tacere, fingere di capire e voltarsi dall’altra parte sono forme di reticenza dolosa che purtroppo continua ad essere abbastanza diffusa. E’ importante anche il lavoro dei giornalisti per fare in modo che questa soglia d’attenzione cresca nell’opinione pubblica, non soltanto siciliana”.

Paolo Mandarà :Giovane siciliano di ampie speranze

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