Che Valeria Sudano non fosse il candidato sindaco del centrodestra per il Comune di Catania, non l’ha sancito l’ultimo affondo di Ignazio La Russa (che peraltro aveva già deciso la nomination di Schifani per la Regione). Quello del presidente del Senato, raccontato da ‘La Sicilia’, è “solo” l’ultimo intervento utile a convincere Matteo Salvini e Luca Sammartino della necessità di cambiare rotta per evitare un’intifada. A decidere le sorti di Sudano, è stata la fiera opposizione di Raffaele Lombardo, che sin dal primo momento non aveva ritenuto quella della deputata del Carroccio una candidatura politica, giacché aveva “bypassato il tavolo programmatico” con un “gruppo umano che ha occupato un partito politico” passato in “Udc, Articolo 4, Partito democratico e Italia viva” e che ha “sfiorato Forza Italia prima dell’approdo alla Lega”.
Insomma, era stato Lombardo – l’antitesi di Sammartino – a bloccare le velleità leghiste e a spingere Fratelli d’Italia verso l’ennesimo atto di presunzione. Che alla fine s’è rivelato vincente (e neppure così presuntuoso). Ma l’antipatia politica dell’ex governatore per le due S della politica etnea, è solo un pezzo della ricostruzione. Perché il rancore covato dal leader autonomista nei confronti dell’ex federato Matteo Salvini, ha radici solide e autentiche. Risale alla vigilia delle ultime Politiche, quando Lombardo decise di affrancarsi dall’alleanza col Carroccio dichiarando nullo il patto che aveva avvicinato i due movimenti sotto la gestione Minardo, suo grande amico.
Ad agosto, era il giorno della presentazione delle liste per Camera e Senato, Salvini detta poche righe alle agenzie per spiegare che “ho proposto a Raffaele Lombardo di fare il capolista del Senato-Sicilia Orientale, ma mi ha ribadito la scelta di non voler ricoprire cariche nel Parlamento nazionale”. La verità non è mai stata rivelata per intero, anche se da quel momento comincia una caccia alle streghe che si trascina stancamente fino alla data del voto. Una settimana prima dell’apertura delle urne, l’ex presidente della Regione (ch’era ancora in attesa del verdetto della Cassazione) si lascia andare a delle confessioni quasi inedite: “Se Salvini leggesse il patto federativo, che ha firmato e forse non ha letto, quindi non possiamo nemmeno imputargli la violazione, si accorgerebbe che c’è un impegno programmatico di livello: misure per ridurre il divario Nord-Sud, mentre la Lega parla di autonomia differenziata, di fatto è una secessione economico-sociale”, disse a ‘La Sicilia’.
Ma soprattutto colpisce un altro passaggio, e un altro presunto tradimento, cioè “l’impegno che i migliori candidati autonomisti vanno nella lista nazionale della Lega. Non in posizione utile, ma comunque coinvolti. Ma avremmo dovuto comporre una lista comune anche all’Ars”. Cosa che non è accaduta. La Lega darà ospitalità a quelli dell’Udc, mentre al Mpa resta l’incombenza di proporre una lista che superi lo sbarramento (impresa riuscita). Nel frattempo, con la chiusura dell’esperienza di Minardo da segretario regionale, i rapporti con la Lega diventano rarefatti. Gli Autonomisti cambiano sponda e scelgono FdI: è col partito di Meloni, nonostante la delusione del 2019 (il patto per Bruxelles tramontò nel convulso finale), che sorgerà un’alleanza in vista delle prossime Europee.
Quella siciliana resta la politica dei rancori. A tenere in fibrillazione la maggioranza, nei primi mesi di questa legislatura, è stato quello riservato da Schifani a Gianfranco Micciché, ex commissario di Forza Italia. E viceversa. Con la denuncia di patti scritti a cena e traditi l’indomani sui giornali. C’era di mezzo la gestione dell’assessorato alla Salute, che Micciché avrebbe voluto avocare non tanto a se stesso ma a uno dei suoi uomini. E la tentazione, poi divenuta una certezza, per Schifani di tenerlo fuori da ogni cosa (e in ogni caso), facendogli pagare a caro prezzo l’etichetta di “guastatore” con cui aveva rovesciato in maniera decisiva Musumeci. E pensare che il 26 settembre, all’esito del voto, i due festeggiarono anche insieme…
Quando capì che anche il partito gli stava sfuggendo dalle mani (dopo la creazione di due gruppi separati all’Ars e la transumanza dei deputati dall’uno all’altro) per Miccichè fu quasi impossibile tenere a freno la lingua: “Certo presidente Schifani, tanti sono stati traditi nella storia, a partire da Gesù, Giulio Cesare… vi ricorderete Bruto… Io sono certo, che alla fine della storia, Bruto sarà sempre lei e io sarò Giulio Cesare”, disse l’ex presidente dell’Ars durante un intervento a Sala d’Ercole. La sua emarginazione, oltre che da Schifani (uno che se le lega al dito), è stata definita con circospezione anche da Ignazio La Russa (deluso per il trattamento riservato al patriota Nello), al quale Miccichè provò a farla pagare non votandolo (assieme a tutto il gruppo di FI al Senato) durante l’elezione allo scranno più alto di Palazzo Madama. Il golpe fallì. Piccolo inciso: anche Gaetano Armao, in rotta di collisione con Micciché, decise di andarsene lui da Forza Italia e dal centrodestra, collezionando una magra figura come candidato del Terzo Polo alle ultime Regionali. Poi è uscito dal giro, pur mantenendo rapporti di stima con l’attuale governatore.
Tra le altre scelte determinate dal rancore – qui non ci si esprime su chi abbia torto o ragione, ma sulla mera analisi dei fatti, per lo più oggettivi – spicca il caso Siracusa. E la “rivolta” di un moderato come Edy Bandiera alla decisione del suo partito, Forza Italia, di preferirgli un altro candidato a sindaco: vale a dire il “collega” azzurro Ferdinando Messina. “Si è palesemente scelto – disse Bandiera dopo la certezza di venire appiedato – di abdicare al principio del merito e si è deciso di schierarsi dalla parte di logiche che non mi appartengono, alle pressioni del deputato locale e dei desiderata di chi, come l’on. Gennuso e la sua famiglia ha ritenuto di imporre”. Uno scontro fratricida col deputato siracusano, che lo porterà comunque ad annunciare la propria candidatura (quasi) in solitaria. Col sostegno dell’Udc. Un partitino che esiste ancora.
Anche se Totò Cuffaro, che concluse in maniera burrascosa i rapporti con i centristi di Casini (all’epoca della sua imputazione), ha quasi provato a disintegrarlo. Come? Non concedendo a nessun deputato in carica con indosso quella maglia di presentarsi nella sua lista: quella della DC Nuova. Niente Turano, niente Lo Curto, niente Cordaro (che nel frattempo, per altre questioni più o meno personali, sanciva il suo distacco dall’alleato-amico di sempre Saverio Romano). L’ex governatore concesse un posto nel “listino” solo alla moglie del segretario regionale Decio Terrana (che oggi s’è persino guadagnata i gradi di deputata segretaria). Ma di fatti ha cancellato le tracce dell’impero di Lorenzo Cesa, la cui proposta in Sicilia non ha più attecchito. Ed è legata unicamente all’autobus di turno che è in grado di garantirgli un passaggio per i palazzi del potere.