Il destino di Palermo è incerto, e la città nel frattempo resta arpionata alla disperazione di sempre. Lo scontro istituzionale fra giunta e Consiglio comunale, all’indomani della mozione di sfiducia nei confronti dell’assessore alla Mobilità, Giusto Catania, è un punto di non ritorno. E’ l’esondazione del senso pratico. Significa aver perso di vista la bussola e l’obiettivo: cioè condurre in porto gli ultimi mesi di una sindacatura ultratrentennale (quella di Leoluca Orlando), possibilmente senza fare danni. Di fronte alla strenua resistenza del sindaco, che rimane abbarbicato al potere nonostante sia succube degli eventi, ma anche della mozione di sfiducia che le opposizioni vorrebbero approvare (solo a parole), ecco, su questo orizzonte si staglia una crisi infinita che ha ridotto Palermo in brandelli.
All’incertezza del futuro immediato – Orlando sì o Orlando no – si aggiunge la profonda incertezza del “dopo Leoluca”. Sarà un’epoca diversa, ma segnata irrimediabilmente da ciò che sta avvenendo in questi tempi contorti. Dove Palermo, attanagliata dai morsi della pandemia, non ha risolto una sola delle sue manchevolezze: il traffico, la monnezza, i cimiteri. Graverà tutto quanto sulla prossima Amministrazione, di qualunque colore essa sia. Non ci piove. Ecco che ai ragionamenti dettati dalle pulsioni del momento – se e quando mandare a casa Orlando: qualcuno, come l’ex grillino Ugo Forello, propone di farlo in autunno – bisognerebbe affiancare ragionamenti seri e di prospettiva. Per provare a ipotizzare, ad esempio, come il prossimo sindaco (dato che questo non riesce) potrà liberarsi delle oltre 900 bare in deposito al Cimitero dei Rotoli; o se sarà in grado di aumentare la raccolta differenziata, evitando un bagno di sangue per le tasche dei cittadini, che già sanno di dover pagare tasse più elevate per consentire il trasferimento dei rifiuti in discarica (che non è quella cittadina di Bellolampo, ormai satura).
Bisognerebbe riflettere su questo anziché dedicarsi ai calcoli spiccioli. E vale anche per Orlando, la cui funzione a Palazzo delle Aquile si è esaurita. Al primo cittadino restano le copertine, le cittadinanze onorarie conferite alle Ong, i convegni e le inaugurazioni, i monopattini elettrici e le piste ciclabili: per il resto non è in grado di garantire un solo intervento amministrativo. Anche il bando sui nuovi tram, fiore all’occhiello della “città sostenibile”, è rimasto incastrato sulla mancata approvazione (da parte del Consiglio) del piano triennale delle Opere pubbliche; sul tema della monnezza – anche se è faticoso metterci la faccia – l’unica prospettiva possibile sarà l’aumento della Tari per evitare il tracollo della Rap, la società della nettezza urbana su cui pesano milioni di extracosti dovuti allo smaltimento dei rifiuti in giro per la Sicilia (né la Regione né il Comune si ostinano a risarcirla). Poi ci sarebbe il traffico, i ponti abbandonati, i cantieri attivi. Il sindaco non ha la più pallida idea di come risolvere le questioni. Il Consiglio non gli dà una mano. Anche sui cimiteri, sulla dignità perduta dei morti e dei vivi, la stasi è lampante: di recente è stata firmata un’ordinanza che revoca 449 concessioni al camposanto di Sant’Orsola. E’ lì che dovrebbero finire i feretri lasciati a marcire ai Rotoli, la più grande vergogna.
E’ pacifico che tutto questo non potrà cambiare prima che l’esperienza di Orlando si avvii al tramonto. D’altronde il sindaco non avrà crediti da riscuotere, e può anche accontentarsi. Ma fra i tempi della campagna elettorale e l’insediamento della nuova squadra, nella prossima primavera inoltrata, Palermo rischia di finire nel guado. A meno che non si decida di andare a elezioni nel prossimo autunno, qualora le opposizioni – anch’esse più divise che mai – non decidano di osare. Ma questo è il capitolo dei meri calcoli politici: per rimanere a galla, e conservare un posticino a Sala delle Lapidi; per organizzare al meglio e tessere le trame della campagna elettorale; per non mettere lo zampino su un commissariamento che certificherebbe l’incapacità della politica. Di tutta quanta la politica. L’aula ha voltato le spalle al sindaco, sostenuto formalmente da undici consiglieri: ci sarebbero eccome i numeri per proporre una mozione di sfiducia (servono 16 firme) e poi approvarla (sono necessari 24 voti). Eppure le riserve ci sono e sono tante: si trovano dentro Forza Italia, nella Lega, nei movimenti civici. L’addio del sindaco comporterebbe lo scioglimento del Consiglio. Tutti, invece, sono alla ricerca del miglior posizionamento, e delle argomentazioni più ragionevoli per scampare a questa ipotesi.
Si è rivelata inutile, persino fittizia, la ricerca di un patto di fine mandato: un mese fa Orlando aveva proposto una serie d’iniziative al Consiglio comunale per chiudere dignitosamente la sua stagione (nulla che risolvesse i guai una volta per tutte, sia chiaro). Come risposta ha avuto un due di picche. E la mozione all’assessore Catania, ritirata fuori dai cassetti impolverati, ne è stata la conferma più atroce. Nessuno ha voglia di collaborare per il bene della città. Gli assessori che si scagliano sui consiglieri, le mozioni che fioccano (sono finiti nel mirino pure gli altri membri della giunta, a partire dalla Prestigiacomo). Il delirio. Questo calderone polemico mette a rischio gli schemi per il 2022: il voltafaccia dei Cinque Stelle, uno dei partiti che avrebbe potuto – in prospettiva – stringere un accordo coi reduci di Orlando (dal Pd a Sinistra Comune), ha firmato la sfiducia contro Catania e oggi parla di una “sepolta primavera”. “Credo che il M5S abbia troppe anime e debba ancora scegliere quale seguire. La coalizione del 2022 si costruirà sui programmi”, ha reagito l’assessore alla Mobilità. Mentre Giambrone, un altro di quelli candidati alla successione del ‘professore’, si sgancia subito: “Per ora bisogna riflettere sulla coalizione del 2017”. Oramai tramontata, defunta.
Il campo della sinistra, archiviato questo capitolo dannoso dell’ultimo Orlando, dovrà spingersi nell’ignoto e cercare di risorgere. Difficilmente potrà contare sul contributo di Ferrandelli (che ha già promesso di schierare una lista civica); tanto meno su quello di Italia Viva, che ieri è tornata in piazza, a Palermo, per rilanciare le proprie ambizioni di successo. E per sottoporre ai palermitani un modello nuovo: il modello Draghi. Era già avvenuto prima degli incidenti di percorso che costarono le dimissioni a due assessori renziani, Piampiano e Costumati; e succede anche adesso, che nel mirino del sindaco è finito ufficialmente quel Totò Orlando, presidente del Consiglio comunale, che da poche settimane ha sposato la causa dell’ex premier. Faraone l’ha ribadito: “Abbiamo chiesto al sindaco di dare un colpo d’ala e di rendersi protagonista. Invece ha deciso di rimanere passivo e attorniarsi di yes man. Avevamo chiesto di riproporre a Palermo il modello Draghi, mandando a casa una giunta che ha dimostrato di non essere all’altezza”. Non è avvenuto. “I palermitani – conclude il capogruppo al Senato di Italia Viva – hanno già sfiduciato questa giunta a prescindere dall’eventuale mozione”.
Italia Viva, in città, è il perno della discussione. E’ il punto di riferimento del percussionismo centrista, che nelle scorse settimane ha riunito parecchie anime disperse: dai renziani ai Popolari di Romano, passando per l’Udc di Turano e Idea Sicilia di Lagalla. L’ex rettore dell’Università di Palermo rimane il nome buono per tutte le stagioni. Potrebbe essere lui, facendo leva sul gradimento di Forza Italia, a riunire questa enorme massa di centro per le Amministrative. A patto che vengano isolati gli estremi. Ma non è il solo in lizza. Italia Viva propone da tempo Francesco Scoma, che ha un passato (anche abbastanza recente) fra gli azzurri. “Aggiungo Gaetano Armao – dice Renato Schifani, consigliere di Silvio Berlusconi, a Repubblica -. Li stimo tutti, sono preparati e hanno esperienza politica ma dovrà decidere la coalizione. Dovranno avere il sostegno compatto di tutto il centrodestra per evitare gli errori del passato”. Più centro che destra: “Italia Viva fa parte del centrosinistra – ha chiarito l’ex presidente del Senato – ma occorre una verifica nella nostra coalizione. Io non sono dell’idea di chiudere la porta senza avere approfondito questo argomento. Bisogna pensare prima di ogni cosa ai problemi di Palermo che sono tanti e vanno risolti in fretta”. Resta abissale, però, la distanza fra le parole e i fatti. E’ questo gap ad aver condannato Palermo all’immobilismo più becero.