La Lapa assassina

Focu granni. Era il grido straziato delle madri, delle mogli e dei padri dei picciotti ammazzati sull’uscio di casa. Era un fuoco grande perché grande era il messaggio che avvampava dentro quella morte. E perché torvi e appuntiti erano i significati che l’alfabeto della mafia disegnava su quel cadavere, su quel sangue, su quelle lacrime. “Focu granni”, fu per una notte intera il grido di Giuseppina Mazzola, la madre di Paolino Riccobono, ucciso a 13 anni nelle campagne di Tommaso Natale. Il padre era un latitante irrequieto, un cane senza padrone, un mulo senza testale. La mafia non lo sopportava e gli scrisse un pizzino per dirgli, tutto ciò che gli doveva essere detto. Paolino, con gli occhi di bambino sigillati dalla morte, era l’immagine ossificata di quel discorso senza parole. “Focu granni, focu granni”.

La storia. Molti anni dopo ci avrebbero spiegato che quella era stata un’epoca felice e che l’Italia era diventata finalmente un paese moderno come l’America, perché c’era un televisore che entrava in ogni casa e in ogni casa si vedeva un Carosello. Ma in quella estate del 1957, quando arrivò anche da noi la Cinquecento, io e mio cugino Filippo, del vasto mondo della storia non sapevamo granché. Avevamo poco più di tredici anni e vivevamo in un paese piccolo piccolo, incaramellato sul costone di una montagna come un presepe lasciato a metà, senza madonnuzze e senza bambinelli, ma con tanti pastori in carne e ossa che erano poi i nostri padri e i nostri zii. Magari si fosse chiamato Macondo; almeno saremmo finiti tra le pagine di un libro. Invece si chiamava Gangi, era sminuzzato tra i Nebrodi e le Madonie e non aveva nessuna epopea da raccontare. Da quelle trazzere e da quei tornanti non era transitato né il Duce né il Re, ma solo il prefetto Mori, inviato in Sicilia per rastrellare banditi e briganti.

Come in tutte le scuole della piccola e grande Italia, la signorina Serafina Vadalà, maestra elementare, ci aveva doverosamente insegnato che il “nostro amato” presidente della Repubblica si chiamava Giovanni Gronchi, e che il Santo Padre, prima di diventare Pio XII, rispondeva al nome terreno di Eugenio Pacelli. Sul finire della scuola ci aveva anche detto, ma tanto per regalarci un baluginio di ricreazione, che la Juventus aveva vinto il campionato di calcio. Ma noi lo sapevamo già perché giocando a culoradente nel cortile di San Cataldo, palleggiavamo con le illusioni, anche con l’illusione di potere un giorno imitare Omar Sivori o John Charles. Per il resto, se proprio si voleva vivere un momento di felicità, non avevamo che da correre nel salone di Calogero Parrinello, detto Lilluzzo, barbiere e uomo di mondo, che era appena rientrato dall’America, dove si era fatto i piccioli. Era tornato in Sicilia con una moglie bellissima, di nome Maggy, che sembrava fatta di miele, tanto era bionda, e aveva subito impiantato uno “shop” tale e quale a quello che i suoceri, d’origine pugliese, gli avevano messo su a Garfield, nel New Jersey, come regalo per il matrimonio.

Aveva una radio grande grande e pure il giradischi, Lilluzzo. “Sentimi a ’mmia”, diceva, “anche noi nati in questa minchia di paese possiamo diventare come i miricani”. E così dicendo adagiava sul piatto una canzone di Frank Sinatra che rintronava dalla Stradagrande fino alla Matrice. “Troppa modernità”, commentava agrognola la maestra Vadalà. Che pure amava ascoltare Gino Latilla con “I tulli tulli tullipan” e, il giovedì sera, si spingeva fino alla sala parrocchiale per vedere Mike Buongiorno e lasciarsi ipnotizzare da “Lascia o raddoppia”, dai quiz e dalle vincite milionarie. Lilluzzo invece si incantava e ci incantava. Perché aveva visto l’altra metà del mondo e ogni tanto diceva parole sconosciute a noi e anche alla maestra Vadalà. Narrava della prima “car” acquistata subito dopo il suo arrivo negli States e mio cugino Filippo domandava se era vero che dentro quelle macchine così lunghe ”uno ci poteva dormire e mangiare”. Poi ci raccontava di un’altra “car” argentata, comprata da un suo amico napoletano di Brooklyn, un certo Frank, che aveva pure il tettuccio che si apriva e si chiudeva, a secondo del sole o della pioggia. E mio cugino Filippo gli chiedeva come mai avesse deciso di tornare in Sicilia e di lasciare in America tanto ben di Dio. Ma lui non era largo di risposta. Pronunciava la parola “family”, poi la parola “destiny” e non accettava più discussioni.

Chissà. L’unica certezza era che prima o poi Lilluzzo un’altra automobile se la sarebbe comprata. “Un po’ di money mi è rimasta”, diceva mentre appoggiava la testa di Filippo al muro per meglio definire la sfumatura dei capelli. “E quando me la compro vi porto a Catania, per farvi vedere da vicino il vulcano dell’Etna. Chiediamo il permesso ai vostri genitori e partiamo. Se la macchina ha il motore come si deve, in sette ore andiamo e torniamo”. Molti anni dopo ci avrebbero spiegato che in quell’epoca – l’epoca dei favolosi anni Cinquanta – c’era stato il miracolo economico e che con la Fiat 600 era cominciata la cosiddetta motorizzazione di massa. Ma nell’estate del ’57, il gelato costava dieci lire e mio padre diceva sempre che domenica me lo avrebbe comprato, a patto però che io dessi ogni santo giorno uno sguardo ai libri; anche se era tempo di vacanze e la maestra Vadalà mi aveva promosso con un solo sei e poi tutti sette e otto.

Molti anni dopo ci avrebbero anche spiegato perché e per come l’industrializzazione rimase a Nord e gli emigrati partivano sempre dal Sud, ma nell’estate del 1957 noi, io e mio cugino Filippo, eravamo ancora lì, ammaliati dalla Millecento strapuntinata che apparteneva a Don Rosario Milletarì, il padrone del pastificio, e che dietro aveva un sedile sul quale potevano viaggiare comodamente tre persone. O dalla “Giardinetta”, lucida di legno e metallo, con la quale il figlio di Don Rosario scendeva ogni giorno a Catania e tornava carico di scarpe intomaiate e inscatolate in quel di Varese e di vestiti già lesti e buoni, confezionati in quel di Prato. Roba che si vendeva come il pane e che scivolava da una mano all’altra come l’olio, a dispetto delle diffidenze della maestra Vadalà, donna di saggezza e preveggenza, che in quel “dannato manufatto” adocchiava un pericolo per la sopravvivenza di ogni sarto e calzolaio.

Povera maestrina di paese: chi mai l’avrebbe ascoltata? Un lunedì di fine agosto – perché da che mondo è mondo di lunedì i barbieri sono chiusi e vanno in giro per diletto – Lilluzzo prese la corriera alle sette del mattino e partì per Catania. Il mercoledì successivo, quando io e mio cugino andammo per tagliare i capelli, ci disse che aveva prenotato una macchina nuova di zecca, più piccola della Seicento ma capace anch’essa di trasportare quattro persone. “L’ultima trovata della Fiat”. L’avrebbe pagata 495 mila lire. “Per me appena 350 dollars”, contabilizzò cercando di spiegarci il mistero del cambio. L’aveva scelta di un colore celeste, “ celeste come una pennellata di cielo”, e aveva dato come anticipo l’equivalente di duecento dollari in contanti, il resto a rate. “Se vogliamo essere come i nostri friends americani non possiamo vivere senza possedere almeno una car”, diceva.

Il giovedì, anche se non avevamo capelli da tagliare, siamo ripassati dal salone. E c’era tanta gente. Non parliamo del sabato successivo, vigilia di festa. Tutti dal barbiere, per barba capelli e shampoo, e tutti a parlare della differenza tra la Cinquecento e la Seicento. Affari d’oro, per Lilluzzo. “Money chiama money, se dimostri di essere ricco il business arriva”, commentava furbastro il futuro proprietario della Cinquecento. “Anche questa car ha il tettuccio apribile. E’ un poco più piccolina di quella che avevo a Garfield ma il sole ci entra dentro lo stesso. Come in America, paisà”.

E se è vero che il sole non conosce padrone, figurarsi la sventura. Dopo i giorni allegri e luccicanti della Cinquecento, ci ritrovammo tutti, piccoli e grandi, a mirare e rimirare nel sagrato della Matrice una nuova e ardimentosa impresa dell’industrializzazione: la Moto Ape. Bella, capiente, comoda e soprattutto versatile. Proprio così: versatile. Ce lo spiegava, con il suo italiano ricco di scuola e doposcuola, Don Peppino Ferrarello, che sette anni prima era emigrato a Torino come magazziniere in cerca di lavoro alla Fiat, ed era tornato con la certezza di essersi già arricchito. In effetti era riuscito a mettere quattro piccioli da parte ma con quei soldi non si era comprato una Cinquecento; e neppure la Seicento. Poiché si sentiva già “uno del Nord, ma con la mente sempre rivolta verso il nostro amatissimo Sud”, aveva preferito – così diceva, sbandierando il cuore ai quattro venti – “dare ai paesani la possibilità di liberarsi dalla schiavitù dei muli”.

Madresanta, e che voleva dire? Noi, piccoli e grandi, che stavamo lì sul sagrato a mirare e rimirare la Moto Ape, strabuzzavamo gli occhi con lo stesso allampanato stupore con cui la domenica guardavamo il parroco di San Cataldo mentre impastava parole e ragionamenti per dimostrare come il pane e il vino diventano, in un solo momento, corpo e sangue del Signore. “Ma che ci hanno fatto di male i muli?”, chiedeva mastro Ignazio Faranna tornando al discorso terreno della Moto Ape, che tutti noi, grandi e piccoli, chiamavamo già, mescolando apostrofi e assonanze, semplicemente Motolapa. Anzi, la Lapa. Mastro ’Gnazio aveva coi muli – ma anche con gli asini o con le giumente – un rapporto di fratellanza. Di mestiere faceva ’u vardunaru. Costruiva cioè quelle selle rustiche, i basti da soma appunto, che consentivano ai contadini di trasportare, con sacchi e bisacce, le masserizie che la terra pietrosa di quelle montagne riusciva sempre a dare. La ricchezza per noi del paese era tutta lì, in quell poveraccissimo frumento che al mulino si pesava nella bascuglia ma che tutti noi, piccoli e grandi, preferivamo invece misurare a salme, a tumuli e a mondelli.

Già a maggio, quando si avvicinava la stagione del raccolto, mastro ’Gnazio preparava la roba. Scendeva a Palermo, dai fratelli Marino in via Cagliari, traversa della monumentale via Roma, e comprava tutta la merce, dalle corde al pellame, che gli sarebbe poi servita per armare al meglio ogni benedetto mulo e far sentire ricco e borghese ogni contadino, ogni mezzadro, ogni gabellotto, ogni bracciante. Perfino i muzzunari, chiamati così perchè erano talmente poveri che non esitavano a raccogliere i mozziconi delle sigarette abbandonati ai bordi delle trazzere. Mastro ’Gnazio gli addobbava il basto e i finimenti. Gli incapricciava con i giummi codiera e pettorale, gli ornava la cavezza e intrecciava la cima della redina, per evitare che si sfilacciasse, con una sofisticatissima “testa di turco”. E il conto? Non se ne parlava nemmeno. Dopo il raccolto, quando il frumento, pulito e trebbiato, era già nei sacchi, i contadini passavano dalla bottega e pagavano a salme e tumuli, a secondo dei lavori che gli erano stati fatti. Certo, non era l’età dell’oro, perchè c’erano giorni che non si vedeva lustro e per mangiare c’era il solito pane e tumazzo. Ma, con l’aiuto di qualche sogno e di qualche fantasia d’amore, si riusciva a campare. Si pensi che mastro ’Gnazio, nell’anno precedente all’arrivo della Lapa, era arrivato ad approntare una cinquantina di basti.

Due anni dopo, quando i contadini si erano liberati uno dietro l’altro della schiavitù dei muli e nelle campagne saettavano le tre ruote, la produzione, chiamiamola così, crollò al miserabile numero di cinque basti per altrettanto sperduti clienti. Fu allora che Mastro Ignazio Faranna, di anni cinquantasette, manifestò alla moglie – pacatamente, dolorosamente – la ferma intenzione di emigrare. Forse al Nord, forse in Svizzera, forse addirittura in Germania. La donna fece finta di non sentire. Poi, quando il pianto si era raggrumato nel petto, sibilò: “Focu granni”. Non c’era sangue, non c’erano lacrime, non c’erano morti ammazzati e non c’era di mezzo la mafia. Ma il fuoco era grande lo stesso.

(articolo tratto da “Il Foglio”, 13/08/2016)

Giuseppe Sottile :

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