L’idea di accogliere in giunta un leghista, e per di più all’assessorato ai Beni culturali e all’Identità siciliana, non è mai stata un freno per la coalizione di governo e, checché ne dicano puristi e opposizioni, non sarà mai motivo di riflessione o di vergogna. Tanto meno di opportunità o coerenza (il presidente della Regione a Pontida ha pure fatto un comizio). Tutt’altro: per Musumeci & co. era l’unica soluzione auspicata. L’unica che non mandasse in fibrillazione i partiti di un centrodestra incerottato, che già molte volte in questa legislatura è andato sotto nei numeri, spesso con l’artifizio del voto segreto. Nonostante ci sia voluto del tempo, alla fine ha prevalso la logica più elementare: bisognava accogliere la Lega e riempire una casella rimasta vuota dalla morte di Tusa. Così è stato. I malumori, per qualche giorno, verranno soffocati.
L’auspicato tagliando di metà legislatura, si è rivelato un tagliandino. E il rimpasto, che avrebbe dovuto portare a stravolgimenti epocali, se non addirittura a un azzeramento completo di uomini e mansioni, è saltato del tutto. Quella allestita a palazzo d’Orleans – gli addetti ai lavori ne avrebbero discusso per un’oretta a stento – si è rivelata un’operazione fantasma. Sulla falsariga dell’ultima Finanziaria, approvata senza coperture economiche. Il rischio, però, è di aver lasciato molte questioni in sospeso. Per la pace dei partiti, si è preferito ignorare una valutazione di merito sul lavoro dei singoli assessori. Pare strano, o quanto meno irrituale, che siano tutti fenomeni. Il governo, in due anni e mezzo, non ha promosso grandi riforme, né imposto un cambio di passo rispetto alla stagione di Crocetta, e vivacchia nell’emergenza da ben prima del Coronavirus. Ma tant’è.
A uscirne vincitore è Nello Musumeci. Il partito del presidente s’è rafforzato, e non parliamo di Diventerà Bellissima. Bensì del gruppo dei pretoriani che è al suo fianco da sempre. Ruggero Razza, alla Salute, è un intoccabile; Gaetano Armao, nonostante una caterva di pasticci sui bilanci della Regione, non lo schioda nessuno; Toto Cordaro, che per far voto a Musumeci si è allontanato da Saverio Romano, è saldo al Territorio e Ambiente. Ma anche i vari Falcone e Grasso, entrambi forzisti della prima ora, fanno parte della schiera. Restano tutti. L’unica cessione (indolore) di Musumeci è l’assessorato ai Beni culturali, che lo aveva visto in prima linea – ad interim – per oltre un anno. Anche se il presidente, preso com’era dagli impegni innumerevoli, in quinta commissione non l’ha mai visto nessuno. Al suo posto si presentavano i dirigenti.
Il tagliandino, più che un guadagno per il presente, rappresenta un investimento per il futuro. Dopo averlo a lungo inseguito, e in parte ostacolato con la nascita di Ora Sicilia – il gruppetto dei transfughi che non piacque a Candiani – Musumeci ha portato Salvini dalla propria parte. Più che tornare utile a una federazione tra Lega e Diventerà Bellissima, l’abbinamento è un’assicurazione sulla vita (politica) del governatore per il 2022, dato che il colonnello Nello non ha più fatto mistero di volersi ricandidare. Con il “capitano” dalla propria parte, sarà molto più semplice strappare una promessa agli alleati. Che da questa battaglia, giocata con armi finte, escono (quasi) tutti vincitori.
La permanenza di Gaetano Armao è una vittoria di Silvio Berlusconi, che di colpo è tornato a interessarsi di vicende siciliane, pur di non scombinare il gruppo azzurro alla Camera, dove veleggia la compagna di Armao, Giusi Bartolozzi. L’assessore all’Economia, che il gruppo all’Ars (Micciché in testa) non considera per niente amico, può contare sulle sponde romane e sui buoni uffici di Tajani, vice del Cavaliere. Ma, tutto sommato, anche Gianfranco Micciché, esce vittorioso dalla contesa. Ha sparato alto – l’azzeramento della giunta – per ottenere il minimo sindacale: i quattro assessorati, infatti, ribadiscono il peso di Forza Italia nell’azione di un governo a trazione musumeciana. In cui Miccichè è riuscito a blindare l’assessore all’Agricoltura, Edy Bandiera, e soprattutto il suo ufficio di gabinetto, quartier generale del forzismo. Disfarsi di Armao è risultato impossibile così come, al momento, intercettare i malumori che arrivano dalle province: Trapani e Agrigento su tutte. Bandiera, la cui posizione di debolezza è nota – non siede all’Assemblea regionale e ha perso il suo sponsor iniziale, Stefania Prestigiacomo – è il nuovo riferimento di Micciché, ma soprattutto di coloro che in questa fase d’incertezza (dalle sorelle Napoli alle associazioni di categoria) ne hanno messo in risalto la disponibilità e il pragmatismo.
Chi stravince la sfida del “rimpastino” sono i centristi. Su tutti i Popolari e Autonomisti. Un gruppo di cinque deputati a Sala d’Ercole, capace nell’impresa di confermare due assessori e mezzo: Lagalla, per Idea Sicilia, Scavone, per gli autonomisti di Lombardo, e Cordaro, che è molto più vicino a Musumeci di quanto non lo sia al Cantiere Popolare di Romano. E anche l’Udc non scherza: sei deputati in aula, compreso il rientrante (dalla Lega) Giovanni Bulla, sono valsi la conferma degli assessori Turano (alle Attività produttive) e Alberto Pierobon (all’Energia e ai Rifiuti). Per lo stesso Pierobon si era speso alla vigilia Lorenzo Cesa, segretario di un partito sempre più piccolo e sempre più meridionalista. Artefice, come Berlusconi e Candiani d’altronde, di un processo di decentralizzazione del potere. Alle decisioni si partecipa tutti: da Palermo a Tradate.
Tradate è il paesino della Brianza in cui è stato sindaco il senatore Stefano Candiani, attuale segretario regionale del Carroccio, che ieri – ma non poteva fare altro – ha esultato per l’ingresso in giunta della Lega e ribadito che bisognerà cambiare passo. Ma è proprio la Lega, nonostante la nota di Salvini, felice di poter gestire la Sovrintendenza del Mare e i 14 parchi archeologici dell’Isola, la vera delusa delle consultazioni. All’inizio Candiani premeva per l’assessorato all’Agricoltura, e s’è dovuto accontentare dei Beni culturali. Non solo: il gruppo all’Ars, tirato su dal deputato nazionale Nino Minardo, che in questa fase appare già più defilato, ha subito i primi contraccolpi. Bulla se n’è tornato all’Udc e pure Marianna Caronia, a breve, potrebbe imboccare lo svincolo autonomista. Contestano la gestione militaresca del Carroccio. L’operazione di martedì ha deluso persino Orazio Ragusa, che già s’allenava per diventare assessore all’Agricoltura, e il capogruppo Antonio Catalfamo, che conserva “ruggini messinesi” con Matteo Francilia, l’assessore in pectore.
Il sindaco di Furci Siculo, fra l’altro, è reduce da un passato… ambiguo: si è formato alla scuola di Giampiero d’Alia, ministro nel governo Letta e star dell’Udc, e alle ultime Regionali era candidato con Alternativa Popolare, il partito di Angelino Alfano e Beatrice Lorenzin, a sostegno di Fabrizio Micari, il competitor di Musumeci proposto dal Pd. A Candiani e Salvini, fino a prova contraria, i transfughi non sono mai piaciuti. Stavolta dovranno farselo piacere. Infine c’è l’ex ministro Saverio Romano, l’altro deluso della partita: sperava, con un intervento in extremis di Berlusconi, di ottenere l’adorato seggio di Bruxelles che l’anno scorso svanì per un migliaio di voti. Ma il tentativo in extremis del Cav. di riportare a Palermo l’europarlamentare Giuseppe Milazzo, nelle vesti di assessore, non è andato a segno. Se ne parla alla prossima finestra di mercato, dove magari anche Ora Sicilia, la stampella di Musumeci deprecata (in passato) da Candiani, potrà ambire a toccare palla.