Non è stata la settimana dei verdetti, non ancora, ma poco ci manca. I due episodi che hanno scandito il ritmo della politica siciliana negli ultimi giorni, ben al di sopra dei poemetti filo-nazisti dall’assessore Samonà, sono lo strappo fra governo e parlamento sul Ddl semplificazione e la visita di Matteo Salvini nell’Isola. Due episodi apparentemente agli antipodi ma che, a circa due anni dalla scadenza elettorale, non possono che essere ricondotti sotto lo stesso tetto e riguardare gli stessi temi: il futuro del centrodestra e la questione della leadership.
Partiamo da un dato di fatto: Matteo Salvini, che venerdì è stato in tour nelle province di Palermo e Messina, non ha mai incontrato Nello Musumeci. Si sono sentiti al telefono, dopo che l’ex Ministro dell’Interno aveva terminato il giro dei comizi. Ma a fare notizia, più che il mancato “punto” col presidente della Regione, è il flirt fra Salvini e Cateno Di Luca (si era ipotizzata una colazione, ma il “capitano” s’è dovuto accontentare di brioche e granita in solitaria). La nuova alleanza è sbocciata, però, durante il lockdown. Interpellato dalla stampa, il leader della Lega ha glissato sul futuro, confermando la stima verso il sindaco di Messina. Il quale, negli ultimi tempi si è un po’ eclissato dai social: “Durante la chiusura per il Coronavirus – ha detto Salvini – ho più volte messaggiato con De Luca perché ne ho condiviso alcune riflessioni e gli ho portato la mia solidarietà per gli attacchi personali che ha ricevuto”. Nulla di strano, se non fosse che lo stesso Cateno, in tempo non sospetti, ha lanciato la propria candidatura per palazzo d’Orleans e, negli ultimi mesi, ha incrociato i guantoni con Musumeci (più volte) sulle ordinanze contro la pandemia.
Il capitolo De Luca, però, non esula da quanto accaduto all’Ars martedì scorso. Dove si è consumato l’ennesimo strappo tra il governo, per l’azione ispirata dai “pretoriani” Gaetano Armao e Toto Cordaro, nei confronti del parlamento. E di quella stessa maggioranza rappresentata da Gianfranco Miccichè e da Forza Italia. Il tentativo di emendare il disegno di legge sulla semplificazione delle procedure amministrative – che parte come un’iniziativa parlamentare trasversale – ha irrigidito il presidente dell’Ars, che di questa norma si è fatto promotore e portavoce. Micciché ha respinto l’assalto del governo al fortino, ma la resa dei conti è soltanto rimandata (a martedì). Tuttavia emerge, in maniera forte e chiara, la distanza abissale fra Musumeci e il commissario azzurro, che di recente si erano già beccati in pubblico: durante la discussione sulla Finanziaria, quando l’intervento di Musumeci a gamba tesa su Sammartino, provocò la dura reprimenda di Micciché (che sottolineò i modi poco garbati del governatore); e dopo l’arresto di Antonio Candela, non appena il presidente dell’Assemblea prese le distanze dalla scelta di Musumeci di nominarlo a capo della task force anti-Covid (“Io lo avevo avvertito”).
Da quel momento il clima fra i due palazzi e i suoi massimi rappresentanti si è irrigidito. Ma, diciamocelo pure, in questa legislatura non è mai stato granché. Musumeci e Micciché la pensano diversamente su parecchie cose, tanto che nel 2012 decisero di candidarsi entrambi e consegnarono la Sicilia a Crocetta. Il compromesso in politica è un’arma vincente, ma non sempre duratura. Per questo il sodalizio potrebbe spezzarsi alla vigilia delle prossime elezioni. L’attuale presidente della Regione, che nel 2017 aveva annunciato di essere giunto all’ultima “corsa”, ha già deciso di ricandidarsi; ma il suo “rivale” interno non sembra avere alcuna voglia di trascorrere altri cinque anni in questo modo (più i due che mancano al termine del mandato). Va ripetendo da tempo che la sua carriera politica è più che matura, quasi completa, ma è impensabile immaginare Forza Italia senza Micciché. Che pur di costruire un’alternativa a Musumeci, si starebbe riavvicinando a Salvo Pogliese, sindaco di Catania, che già custodisce il sostegno di Fratelli d’Italia e le simpatie di Salvini.
Quindi, ricomincio da tre. Musumeci, Pogliese e De Luca. Sono questi i nomi che circolano per la futura guida del centrodestra. Per il prossimo presidente della Regione. Il primo, Musumeci, si porta sul groppone due anni e mezzo di prudenza estrema (e non solo sul virus), di riforme mancate, di scorribande verbali a cui non sono seguiti molti fatti. E una fissa per il decisionismo, che l’ha portato a richiedere l’attuazione dell’articolo 31 dello Statuto (per diventare comandante in campo dell’esercito di stanza nell’Isola) e pieni poteri commissariali in caso di emergenza. Ma il difetto più grande della sua gestione, probabilmente, è il cattivo rapporto coi due rami del parlamento: non solo con le opposizioni, che non gli hanno mai perdonato nulla (ad eccezione degli “stampellisti” dell’ultim’ora), bensì della maggioranza, che ha fatto pesare il proprio scontento azionando a più riprese la leva del “voto segreto”. Ricostruire rapporti così lacerati impone a Musumeci di cambiare registro da subito, e, comunque, porterà via del tempo. Anche i centristi di Saverio Romano, a più riprese, sono parsi “freddini” col governatore, per la sua incapacità di connettere i partiti alle decisioni del governo. E persino con la Lega si Salvini l’amicizia non è mai sbocciata del tutto: il segretario regionale Candiani ha mandato in soffitta l’ipotesi di una federazione fra il Carroccio e Diventerà Bellissima, a lungo auspicata da Ruggero Razza lo scorso autunno.
Ed è a questo punto che entra prepotentemente in gioco Salvo Pogliese. Il sindaco di Catania e neo coordinatore di Fratelli d’Italia, è tornato da qualche mese alla casa madre. E’ stato lui a inaugurare la diaspora da Forza Italia, portandosi dietro l’élite catanese del vecchio partito (in primis, l’ex vice coordinatore Basilio Catanoso). La Meloni gli ha affidato le chiavi del partito. Lui s’è guadagnato la stima di Raffaele Stancanelli, in rotta con Musumeci da oltre un anno, e le simpatie di tutti gli altri. E’ Pogliese a rappresentare Fratelli d’Italia nei vertici di maggioranza a Palermo e a tenere i fili col gruppo parlamentare e con l’assessore Manlio Messina. E potrebbe essere lui un giusto compromesso per superare la stagione deludente di Musumeci, con l’avallo persino di Miccichè.
Il sindaco di Catania piace, come detto, pure a Salvini, che gli ha reso visita più volte a palazzo degli Elefanti, ricevendo in cambio scorte di complimenti per aver “curato” il dissesto del comune etneo quand’era al Viminale. E pare il profilo ideale per riconnettere il centrodestra, o meglio il destra-centro, alla sua funzione di governo. Se solo non ci fossero un paio di questioni in sospeso: la prima è che il mandato di Pogliese scade nel 2023 (lui rinunciò al comodo seggio di Bruxelles per fare il sindaco, e non è detto che abdichi). La seconda, assai più vincolante, è la vicenda giudiziaria che lo riguarda: l’ex capogruppo del Pdl all’Ars, infatti, deve rispondere di peculato nell’ambito dell’inchiesta sulle “spese pazze” a palazzo dei Normanni. Il processo, rallentato dal Coronavirus, prevedeva l’ultima udienza, a Palermo, per la fine del mese, ma slitterà ancora. La procura ha chiesto 4 anni e 3 mesi. Fra una condanna e un’assoluzione, anche sul piano politico, c’è una differenza enorme. Nel caso peggiore, Pogliese decadrebbe da sindaco per la legge Severino. Non sarebbe il miglior auspicio per concorrere alla presidenza.
A quel punto – a meno che Micciché non decida di far confluire le energie del centrodestra attorno a sé – resta un’altra ipotesi: Cateno De Luca. Il sindaco di Messina, che è già stato un assiduo frequentatore dell’Ars, non ha mai nascosto l’ambizione. E non teme neppure di affrontare una battaglia campale con le armi spuntate (a palazzo Zanca governa senza maggioranza). Ha le stimmate del sindaco “guerriero”, la dote di una comunicazione aggressiva e irrituale, il sostegno di un ego smisurato. Fatica a costruire alleanze durature e a consolidare i rapporti. Rappresenta un mondo moderato (il suo partito è l’Udc), pur non essendo un moderato. Ma al di là di questi vezzi, può giocarsi una carta fondamentale: la stima di Micciché e gli elogi di Salvini. Chissà che all’ombra di qualche messaggino, non sia nato qualcosa in più di una semplice infatuazione estiva.