Mio nonno Totò – che era un “ragazzo del ’98” – aveva due piccole cicatrici, una sul pollice destro, l’altra, più grande, sul sinistro. Io mi divertivo a guardarle e a farmele raccontare. Lui era un monumento alla discrezione e lo faceva dunque con pudore tanto che fu mio padre ad arricchirmi di particolari quelle storie. La cicatrice sulla mano destra era conseguenza dell’amore, aveva sfidato a duello un tipo burbero che sarebbe poi diventato suo suocero, non voleva concedergli la mano di mia nonna. Volarono, immagino, parole grosse e dunque guanto di sfida, padrini, pistole e, all’alba, alle falde di Monte Pellegrino. Ma mentre lui – che non avrebbe mai ucciso il padre della ragazza che amava – sbagliò artatamente mira, quell’altro mirò proprio per farlo fuori ma il colpo – unico – sfiorò solo il pollice destro. Fine del duello, le nozze quasi a seguire.
La cicatrice alla mano destra era invece frutto della guerra. Come molti “ragazzi del ’98” era stato chiamato al fronte. La famiglia aveva una vaga ispirazione socialista ma proprio perché vaga – non erano tra gli anti-interventisti, insomma – aveva lasciato che Totò partisse, che fosse scritto anche il suo nome sulla “’15-’18”. Mi raccontava di pioggia, di freddo e di fango, di quella guerra lì, la Grande Guerra, la cui fine, vittoriosa, si celebra il 4 novembre.
A me sembrava quasi che me la raccontasse all’incontrario perché, nonostante da piccolo fossi stato vaccinato contro ogni retorica, come ad ogni bambino, la guerra mi sembrava una grande avventura, un’epica, una cosa da eroi. Mi raccontava di un pezzo di pane, nero tanto era sporco e rancido, che un giorno gli aveva offerto un “nemico”, stremato quanto lui. Ma come, nonno, un austriaco? Ogni tanto accadeva anche questo, spiegava. Mi raccontò che il dolore più grande che gli aveva lasciato quella guerra era il non aver potuto vedere morire sua madre nel letto di casa, a Palermo. Avrebbe potuto ottenere un congedo, non glielo diedero. Non furono tanto i “signori della guerra”, brigarono proprio da qui, da casa, per non farglielo avere: avevano saputo che un suo amico d’infanzia era tornato al fronte con un giorno di ritardo dal congedo, “aveva sbagliato a leggere la data o forse perse un treno”: insomma, arrivò, si presentò e lo fucilarono per 24 ore di diserzione.
Mi raccontò di quella cicatrice al pollice sinistro. Andavano all’assalto un po’ a casaccio, spesso, io che immaginavo invece raffinati giochi di strategie. Uscivano dalle trincee in albe brumose e freddissime, grigie da non vederci, e si lanciavano con lo slancio dei loro giovani anni verso il nemico, i più furbi stavano in retroguardia per pararsi dai colpi, i più coraggiosi davanti a sfidare con sprezzo il fuoco austriaco. Attaccarono di notte, quella volta, l’ufficiale che diede l’ordine era un palermitano e molti di quelli in trincea erano siciliani: uscirono da quei “fossi per animali morti” e si lanciarono.
L’ufficiale, forse per corroborare la perentorietà dell’ordine, qualche secondo dopo si lasciò scappare un “amunì, picciuotti!”. Li vide cadere due, tre alla volta, i compagni che stavano davanti. Quasi inutile dare voce ai fucili, non ne avevi il tempo, offrivi solo il petto al nemico, letteralmente. Lo accecò un bagliore poco distante, lo raggiunsero schegge di granata e istintivamente si buttò giù, nel fango. Tutto finì in pochi minuti o almeno così gli sembrò. Taratatatà, taratatatà, taratatatà… Si credeva morto, semimorto o quasi, si alzò invece soltanto una maschera di fango e sangue, con la mano gocciolante e dolente, poco più che una scalfittura al pollice sinistro che lasciò solo quella cicatrice.
Per lui la guerra finì qualche settimana dopo, tornò a Palermo senza medaglie da eroe ma soprattutto da orfano. La Patria ringraziò per lettera. Come disse, come disse quell’ufficiale, nonno?, gli chiedevo divertito un milione di volte. E lui mi assecondava per la milionesima volta: “Disse: amunì, picciuotti!”. Anche se non era un gioco da ragazzi.