Tu pronunci la parola giustizia e la prima immagine che ti viene in mente è quella di una maestosa cattedrale laica, popolata da reverendissime eminenze in toga d’ermellino, da canonici in toga nera e da chierici anche vaganti ma comunque ancorati a una visione sacramentale della legge. Una cattedrale in stile gotico, non c’è dubbio: con le sue nebbie ossianiche e con le sue oblique penombre. Ma pur sempre un luogo della civiltà, costruito per preservare e custodire la fede delle genti nelle regole e nello stato di diritto.
Poi ti guardi in giro e cerchi di capire che cosa resta di tanta magnificenza nei tribunali e nelle corti d’appello, nella Cassazione e nelle corti d’Assise. E scopri che la cattedrale progettata dai padri costituenti per garantire a ogni cittadino la celebrazione di un processo giusto in realtà quasi non esiste più. Per carità, gli ermellini sono sempre lì, appesi al chiodo, pronti a dispiegarsi per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Restano al loro posto, ciascuno con la dignità del proprio grado, anche i giudici ordinari; quelli che ogni giorno debbono, volenti o nolenti, assumersi la responsabilità di pronunciare una sentenza, di assolvere o condannare un imputato, di ascoltare accusa e difesa, di assegnare torti e ragioni. E lungo i corridoi delle procure ritrovi ancora, zelanti e ardimentosi, i pubblici ministeri; anche quelli che volevano riscrivere la storia d’Italia e che ora magari si accontentano di girare il mondo, di vagare da una città all’altra per predicare il vangelo della loro personalissima lotta alla mafia, alla corruzione, agli abusi e a tutto il male che la politica produce e dissemina nella società.
Il guaio nuovo è che su quel che resta della cattedrale e del suo ordine giudiziario si avanza un esercito agguerrito di sacrestani, ribaldi e ghibellini, che si credono altrettanto unti dal signore e che in quanto tali vogliono amministrare la giustizia con i loro codici e con i loro tribunali paralleli. Non si muovono in nome del diritto ma in nome dell’onestà; non accusano sulla base di una prova ma in virtù di un sospetto; non contestano un reato ma una colpa o, peggio, un peccato. Prendiamo l’ultimo fiore – del male, del bene: scegliete voi – sbocciato l’altro ieri nel palazzo romano di San Macuto, sede della Commissione parlamentare Antimafia. Il presidente Nicola Morra, che è un grillino e un sacerdote del cambiamento, non è riuscito a contenere la propria vocazione moraleggiante e l’altro ieri, con un discorso a sorpresa, ha tentato di mettere alla gogna Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella, oggi senatrice di Forza Italia e, per scelta del suo partito, componente legittima della Commissione. Il sacrestano Morra, avvalendosi della “prudenza preventiva”, uno sbirresco strumento previsto dal suo personalissimo codice di procedura, ha detto pubblicamente di “sospettare” che Sandra Lonardo possa in un imprecisato futuro sabotare i lavori della coraggiosissima Antimafia ospitata a San Macuto. Una mossa avventata e maldestra. Il cui obiettivo forse era semplicemente quello di rimestare una palude di vecchi agguati giudiziari, una palude dalla quale Sandra Lonardo dopo dieci anni è però venuta fuori: la giustizia ufficiale – quella della cattedrale laica, con i suoi chierici e i suoi canonici, con i suoi ermellini e i suoi brocardi – l’aveva assolta con formula piena. Ma per il presidente dell’Antimafia e per il popolo dei duri e puri le sentenze dei tribunali, delle corti di appello o della Cassazione contano ma fino a un certo punto; perché sopra i tre gradi di giudizio previsti dall’ordinamento può ergersi sempre e comunque il tribunalino dell’onestà montato da Morra e dai suoi confratelli sul palchetto damascato di San Macuto.
Un palchetto anche e soprattutto mediatico. Rosy Bindi, che ha retto l’Antimafia per tutta la passata legislatura, conosceva molto bene la forza comunicativa che la Commissione poteva assumere in una qualunque fase del dibattito politico. E basta richiamare uno o due esempi per ricordare con quanta spericolata determinazione la presidente Bindi sia riuscita a ribaltare verità che non erano funzionali alla sua visione delle cose. Quando un magistrato della procura di Napoli denunciò abusi e privilegi dell’antimafia militante, a partire da certe cooperative affiliate alla holding di don Luigi Ciotti, Rosy Bindi fece il diavolo a quattro pur di cancellare gli interrogativi che si erano accumulati sul mondo serafico di “Libera” e sugli interessi che si muovono attorno ai terreni sequestrati ai mafiosi. La stessa cosa avvenne quando la Commissione si trovò di fronte alla disinvoltura disinvoltura con cui molti tribunali amministravano i patrimoni confiscati ai boss o alle aziende ritenute vicine a Cosa nostra. La Bindi interrogò il prefetto Giuseppe Caruso che aveva puntualmente denunciato abusi e distorsioni, ma lo liquidò subito in malo modo: lei, da vecchia militante dell’antimafia chiodata, non poteva avallare il principio che potesse esistere un’antimafia ladrona o, peggio, un’antimafia degli affari. Fu smentita poche settimane dopo, quando la procura di Caltanissetta scoperchiò il pentolone maleodorante della sezione presieduta da Silvana Saguto e della grande abbuffata che le Misure di Prevenzione di Palermo avevano apparecchiato per parenti e amici al solo scopo di spolpare fino all’ultimo osso le ricchezze sottratte alla criminalità organizzata.
Ma la contrapposizione tra la giustizia dei giudici e la giustizia dei sacrestani non si è fermata alla Bindi. Oggi non c’è inchiesta e non c’è processo che possa concludersi serenamente: per ogni fascicolo che si apre o si chiude dentro i palazzi di giustizia, ecco spuntare fuori dalle sacre mura un tribunale parallelo che chiede conto e ragione, che appronta un’istruttoria suppletiva, che convoca comparse e primi attori, testimoni e persone informate dei fatti. Un povero disgraziato, costretto per un qualunque motivo a salire e scendere le scale di una procura della Repubblica, con o senza avviso di garanzia, sa già che la giostra non si fermerà mai al chilometro zero, e che prima o poi – succede soprattutto in Sicilia – sarà chiamato dalla commissione antimafia regionale e poi dalla commissione disciplina del proprio ordine professionale e poi dalla commissione antimafia di Morra e poi, se c’è di mezzo un giudice, dalla commissione disciplinare del Csm e poi dal comitato etico del condominio o del distretto scolastico del figlio. Perché tutti vogliono capire e giudicare.
Sarà lo spirito del tempo, ma sta di fatto che, ovunque ti giri trovi un tribunale parallelo che si impanca altero e pettoruto davanti a te; che pretende, spocchioso e impudente, di tambureggiare sulla tua vita privata e su ogni tua eresia immaginaria. E se spieghi che su quelle stesse cose hai già dato le risposte necessarie all’autorità giudiziaria, la sola abilitata dallo Stato a interferire nelle vicende che ti riguardano, i tribunali paralleli non si scompongono nemmeno: “Ma noi non vogliamo sovrapporci alla magistratura, verso la quale nutriamo sempre la massima fiducia”, replicano. “Vogliamo solo capire che cosa fare per evitare che cose come queste possano ripetersi, per evitare che comportamenti come questi possano ulteriormente inquinare la società civile”. E con la banalissima scusa di capire, dibattere e disquisire, intanto montano processi su processi, aprono indagini su indagini, appaltano perizie e assegnano consulenze.
Sarà lo spirito del tempo, ma la vocazione al sinedrio è anche diventata di moda. E la tv lo dimostra. Domenica scorsa, in quel raffinato tempio del trash che è la trasmissione di Barbara D’Urso, una leggera squadretta di sedicenti e seducenti opinionisti ha deciso di attrezzare una stanza della tortura – mediatica, va da sé – per meglio mettere sotto accusa e sotto processo Luciana Turina che nel bel tempo andato fu cantante e attrice, ma che ora si ritrova, per usare una frase tanto cara a Di Maio, sotto la soglia della povertà. Il sinedrio di Domenica Live ha scoperto che la sventurata aveva trovato, pur nella sua indigenza, trenta euro. E anziché comprarsi il pane o le cipolle era andata a giocarseli al Bingo. Dovevate vederli gli inquisitori. Dovevate vedere con quale compiacimento grifagno azzannavano la peccatrice e con quali artigli affilati le strappavano le carni del buon costume e della decenza. E dovevate pure sentire il timbro torquemadesco con il quale la divina Barbara invitava i telespettatori e le trecoteuses presenti in studio a guardare il servizio del giornalista inviato lì, in una sala Bingo della Sicilia più estrema, per documentare la verità che la Turina, misera e piagnucolosa, si ostinava invece a negare. E’ stata un orgetta mica male, di violenza e volgarità, quella messa in piedi domenica scorsa dalla Sfavillante Presentatrice e dai suoi divertitissimi sgherri. E’ stato un sinedrio spettacolare e maramaldeggiante, ma perfettamente in linea con lo spirito del tempo. Di questo nostro tempo greve. E per di più ammorbato da una indicibile e voluttuosa crudeltà.