A ciascuno la sua giustizia

Un'immagine del film "Sulla mia pelle", in cui l'attore Alessandro Borghi interpreta il protagonista Stefano Cucchi

Ma sì, diciamolo anche noi. A che serve quella giustizia lì, quella delle toghe e dei tribunali, degli ermellini e dei combinati disposti, delle regole e dello stato di diritto, delle prove e delle testimonianze, degli incidenti probatori e delle corti d’assise? A che servono i tempi lunghi dell’appello e della Cassazione, dei rinvii e dei processi da rifare? A nulla. Perché il nuovo mondo – chiamiamolo così il tormento che ci è piovuto addosso dopo il 4 marzo – non sopporta più quelle impalcature austere e soffocanti, come i “palazzacci”. Preferisce risolvere tutto e subito con un tweet, con un post, con una dichiarazione in streaming, con una conferenza stampa. O con uno sberleffo. Avete visto con quanta accortezza televisiva Matteo Salvini ha aperto la busta dell’avviso di garanzia che la procura di Palermo gli aveva notificato qualche ora prima, chiamandolo a difendersi da un reato mica da ridere come il sequestro di persona? E avete visto con quanta spocchia e con quanta sicumera ha attaccato quella cartuzza al muro trasformando un atto che abitualmente non fa onore in una “medaglietta” che certamente gli procurerà altro consenso, altri applausi, altri voti?

E’ la nuova giustizia, bellezza. Ed è inutile piangerci sopra o strapparsi le vesti. Perché il nuovo mondo preferisce liquidare tutto con un like o con un hastag e crede che sia tempo perso dibattere ancora, che palle, su Antigone o sul libro di Giobbe, su Kafka o sul Mysterium iniquitatis introdotto da San Paolo per mantenere sempre vivo, anche fra i cristiani, il dubbio tra ciò che è bene e ciò che è male.

No. Tra le tante giustizie possibili, il nuovo mondo ha stabilito che, se proprio non si vuole cedere al codice liquidatorio del ministro dell’Interno – “io sono eletto dal popolo e il magistrato che indaga su di me invece no” – resta comunque a disposizione degli italiani la giustizia televisiva del Gabibbo o delle iene. Che oltre a offrire il vantaggio di risolvere ogni questione in poco più di un’ora, e per giunta in prime time, vi regala anche il privilegio di non avere la rogna di un confronto o il fastidio di un contraddittorio. E’ una forma di giustizia sostanziale, senza fronzoli e senza orpelli, che va dritta al cuore del problema e che magistralmente sa come rispondere a una istanza primaria del pensiero grillino: lo sputtanamento.

Ed è una giustizia che vanta già un testimonial di tutto rispetto: quel Dino Giarrusso che nel programma Mediaset – Le Iene, appunto – ha preso il giornalismo per le corna e, pur di fare ascolti, ha mascariato persone, agitato fantasmi, cavalcato teorie mediche pericolose e inverosimili. Un campione, verrebbe da dire. Talmente bravo che, dopo essere stato trombato alle elezioni, è stato nominato dal sottosegretario all’Istruzione nientemeno che consulente del ministero con la delega a vigilare sulla correttezza dei concorsi universitari. E guai se domani uno dei tanti professori che hanno diligentemente studiato per conquistare una cattedra – magari un rivale del premier Giuseppe Conte, in corsa per la Sapienza – oserà mettere in discussione le scelte di Giarrusso: sappia, costui, che le Iene non hanno mai rettificato, neppure quando la giustizia – la “giustizia dei parrucconi” – gli ha dato clamorosamente torto. Come nel pasticciaccio brutto, molto brutto del regista Fausto Brizzi, messo alla gogna come responsabile di ogni nefandezza contro le donne e poi assolto perché le prove esibite da Giarrusso in televisione, erano solo dicerie. Fuffa e nulla più.

Ma nella giostra delle giustizie possibili, quella televisiva, con le sue scempiaggini e con le sue luci da avanspettacolo, ha trovato posto solo negli ultimi anni. E se gli storici della comunicazione vorranno dedicarci una minima attenzione, potranno anche scoprire che è indirettamente figlia della cosiddetta giustizia cinematografica le cui radici sono tuttavia più profonde, più complesse e, in parecchi casi, molto più sofferte.

L’ultimo esempio – un esempio da richiamare col rispetto massimo che va assegnato al dolore, alla sofferenza, al lutto – lo si può ritrovare nella cronaca dell’ultimo Festival di Venezia che, come si ricorderà, si è aperto con il film “Sulla mia pelle”, tratto dalla storia tragica e maledetta di Stefano Cucchi, lo sventurato giovane tossicodipendente che nel 2009 è entrato vivo in carcere, a Regina Coeli e ne è uscito morto, con le carni tumefatte e due fratture alla colonna vertebrale. La giustizia, quella delle procure e dei tribunali, non ha accolto fino a questo momento la tesi della famiglia e, in particolare, della sorella Ilaria secondo la quale Stefano sarebbe morto per le percosse subite dai carabinieri che lo hanno arrestato e poi, in cella, dagli agenti di polizia penitenziaria. Tuttavia, dopo un lungo calvario di perizie e controperizie, la macchina giudiziaria si è rimessa nuovamente in moto.

Ma la verità resta ancora lontana: Stefano si è massacrato da sé durante una sciagurata crisi di astinenza o è stato ammazzato a pugni e calci da chi avrebbe dovuto vigilare sulla sua detenzione e pure sulla sua vita? Il dubbio è lento a sparire. E mentre tutti – dai giudici ai periti, dai pm agli avvocati – cercano di squarciare le nebbie che avvolgono da quasi dieci anni la morte di un ragazzo e il dramma di una famiglia, ecco che irrompe a Venezia “Sulla mia pelle”, il film diretto da Alessio Cremonini. Il quale, formalmente, si limita a raccontare l’ultima settimana di vita di Stefano ma sostanzialmente – ecco riapparire la giustizia sostanziale – assegna alla famiglia e a quanti gli hanno voluto bene, quel risarcimento morale che Tribunale, Corte d’appello e Cassazione riconosceranno, se mai lo riconosceranno, a dir poco tra cinque o sei anni.

La giustizia cinematografica, del resto, serve proprio a questo: ad attenuare i dubbi e ad azzerare i tempi. E soprattutto a sostituire una sentenza con gli applausi della platea. Quelli tributati dal Festival di Venezia all’opera di Cremonini sono durati sette minuti. Inutile ricordare le lacrime di Ilaria o, di converso, lo sdegno del sindacato delle forze dell’ordine che si sono “sentite infamate e oltraggiate” dal film “che sposta in una sala cinematografica un processo che proceduralmente, in uno Stato di diritto, andrebbe svolto in un’aula di tribunale”.

Parole al vento, quelle degli agenti di polizia penitenziaria. E soprattutto parole sprecate. Perché le loro ragioni, per quanto comprensibili e documentate, non sfondano la parete dell’opinione pubblica. Anzi: vanno a scontrarsi con una verità che sul piano emotivo, e poi anche mediatico, prevarrà sempre e comunque su tutte le altre. Ed è la verità costruita “in nome del sangue versato”, l’unica in grado di rendere giustizia a un martire. Chi avrà mai il coraggio di contestarla? Qui nessuno vuole sparare nel mucchio ma non sarà di sicuro facile trovare un giureconsulto o un azzeccagarbugli che abbia la forza di contrapporre pubblicamente le ragioni del diritto alle ragioni del sangue; o le ragioni dei codici allo strazio dei cuori, come quello di Ilaria, che non si rassegnano e portano in piazza una voglia di giustizia, calda e immediata, che i tribunali con i loro tempi morti non riescono a garantire: perché ci sono le testimonianze da raccogliere, le prove da valutare, le udienze da fissare, le procedure da rispettare, i diritti della difesa da tutelare.

Ilaria Cucchi, con la sua battaglia di amore e generosità per il fratello, appartiene a una schiera nobile e, purtroppo, anche estesa: quella dei familiari delle vittime. I quali legittimamente avvertono più di ogni altro le scudisciate dei ritardi, delle incongruenze, della dimenticanza. Vogliono – legittimamente, fortissimamente – che sul sacrificio del loro congiunto, resti sempre accesa la luce della memoria e fanno di tutto affinché la fame di verità e giustizia coinvolga una intera comunità, un popolo, una nazione. Spesso anche con i toni estremi di chi crede che lo Stato, quello delle toghe e degli organi inquirenti, non faccia fino in fondo il proprio dovere; o, peggio, se ne stia a traccheggiare sottotraccia per coprire chissà quali trame oscure o chissà quali mandanti occulti o chissà quali inconfessabili depistaggi.

La storia dei processi di mafia offre un catalogo sconfinato di inquietudini e sospetti. E per averne un’idea basta pensare quello che è successo attorno ai processi avviati dalla procura di Caltanissetta per tentare di arrivare a una verità – una verità giudiziaria, s’intende – sulla strage di ventisei anni fa in via D’Amelio, a Palermo, dove un’autobomba stroncò la vita del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta. Un processo non facile, costruito in prima istanza sulle fandonie di un falso pentito, e davanti al quale i familiari di Borsellino si sono addirittura divisi, fino a viverlo come separati in casa: da un lato uno dei fratelli, con un proprio avvocato, pronto a sostenere la tesi che il giudice fu assassinato perché aveva scoperto la scellerata trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa nostra; dall’altro lato i figli, con un altro avvocato di parte civile, pronti ad accettare e rispettare la verità che il collegio giudicante, con i suoi riti e i suoi tempi, avrebbe comunque accertato.

La giostra, infernale e illusoria, delle giustizie possibili non si ferma nemmeno davanti al sangue versato. E a volte riesce pure a impazzire.

Giuseppe Sottile :

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