Si erano ripromessi di non arrivare “all’ultimo minuto”, come accaduto alle Amministrative a Roma e Milano, lo scorso autunno, dove le scelte operate in extremis – rispettivamente Michetti e Bernardo – non hanno lasciato abbastanza tempo alla campagna elettorale. Matteo Salvini aveva auspicato di chiudere la partita del candidato (unitario) di coalizione entro novembre, oppure di celebrare le primarie. Ma quattro mesi dopo nel centrodestra palermitano regna l’imbarazzo. E una miriade di nomi in campo senza una precisa strategia. Un’istantanea che cozza la città che brucia. Ma soprattutto con la fazione opposta, il “campo largo” di sinistra, che pur venendo fuori da dieci anni di orlandismo sfrenato (e deleterio) e da una ricerca del metodo che si è palesata in tutti i suoi limiti, è riuscita a tirar fuori dal cilindro il nome di Franco Miceli, presidente nazionale dell’Ordine degli Architetti, un civico, che nelle prossime ore dovrebbe sciogliere la riserva e mettersi a capo della coalizione.

A destra, invece, osservano con disincanto le ultime manovre di Pd e Cinque Stelle. Pasticciate finché si vuole, ma concrete. Senza riuscire ad emularle. La decisione su chi candidare rimane appesa a un vertice romano, fra Meloni e Salvini, che per il momento non è neppure in calendario. E resta legata all’ipotesi, sostenuta in primis dalla Lega, di inserire delle Amministrative di Palermo nella partita più ampia che comprende il Comune di Messina e la Regione, su cui i partiti sono più divisi che nel capoluogo. I due leader del centrodestra non si parlano dalla fine del romanzo Quirinale, e dalla rielezione di Mattarella che Giorgia non ha mandato giù.  Non è detto che torneranno a farlo nei prossimi giorni, anche se far pendere il destino della quinta città d’Italia dagli interessi (legittimi) di due leader in rotta di collisione non è il massimo della vita.

Eppure la competizione interna al centrodestra, che per Berlusconi è già risolta (è di qualche giorno fa l’endorsement per il Capitano), tiene tutti col fiato sospeso. E su Palermo ha avuto l’effetto di una deflagrazione. I candidati in campo sono innumerevoli: vanno da Carolina Varchi, che Fratelli d’Italia ha ufficializzato la settimana scorsa con la discesa nell’Isola del responsabile organizzativo di FdI, Giovanni Donzelli, a Roberto Lagalla, che dopo una vita di militanza nei partiti s’è riscoperto “homo civicus” e ha addirittura ha deciso di nascondere il simbolo del suo ultimo schieramento, l’Udc di Cesa (che però sta già preparando una lista per supportarlo). Poi ci sarebbe il leghista Francesco Scoma, l’amo gettato dal Carroccio per vedere chi abbocca; ma soprattutto Francesco Cascio, che non ha desistito di fronte agli apprezzamenti espressi da Berlusconi per Lagalla nell’ultimo vertice ad Arcore. A spingere per Cascio è anche il resto di Forza Italia, quella in rotta con Micciché. Ci sarebbe pure l’autonomista Totò Lentini, che ha tappezzato la città di manifesti e non sembra avere voglia di rinunciare: anzi, è uno dei sostenitori delle ‘primarie’ al primo turno, per confluire su una proposta unitaria al ballottaggio. Un’idea ragionevole finché si vuole, ma anche un po’ rischiosa. Un conto è correre con due candidati, un altro è presentarne cinque e far perdere la bussola agli elettori.

“Palermo non è un gioco al servizio della politica”, aveva detto smarcandosi Franco Miceli. Ma questo è un insegnamento che con la destra più litigiosa di sempre non attacca. Salvini e Meloni potrebbero utilizzare Palermo per rompere una volta per tutte. Per sancire una spaccatura che ha accompagnato tutto l’arco della legislatura – dal governo gialloverde alla macedonia Draghi – in cui Lega e Fratelli d’Italia, con l’eccezione del Conte-due, sono sempre rimaste agli antipodi. E che persino sul presidente della Regione, venendo a questioni più locali, la pensano diversamente: la Meloni ha imbarcato Diventerà Bellissima, e la strada per scaricare Musumeci – ch’era arrivato a snobbare FdI, definendolo “un partito del 2-3% – s’è improvvisamente ristretta; mentre Salvini ha lavorato in direzione opposta, traendo linfa dalle pessime referenze sul governatore. E unendo, simbioticamente, le proprie forze con chi Musumeci lo vede “perdente” (e lo vuole fuori): da Raffaele Lombardo, leader egli Autonomisti, a Gianfranco Micciché, commissario regionale (dimezzato) di Forza Italia. Quest’ultimo ha sempre manifestato una certa predilezione per il modello Draghi o, comunque, per un centrodestra non schiacciato su posizioni sovraniste. E da qui potrebbe costruire la nuova geografia dell’Ars, anche all’interno delle commissioni: un passaggio che non c’entra nulla con Palermo, ma finirà con l’avere ricadute inevitabili sulla scelta del prossimo sindaco. E quasi certamente dell’assessore che prenderà il posto, dal 31 marzo, di Lagalla.

Le alchimie a cui si lavora dentro e fuori dai palazzi stanno allontanando, ora dopo ora, l’ipotesi di un candidato di coalizione. Mentre la politica ha già esaurito il suo credito – scarso – con la città. Per questo Lagalla ha scelto volutamente di cambiare strada: della serie, ‘i partiti non mi rappresentano’. Che poi abbia tentato di ricucire con la nuova maggioranza forzaleghista, spingendosi fino a Modica (la città di Nino Minardo) è un altro paio di maniche. A Salvini e Berlusconi (o ci per lui) non mancherà il modo per ufficializzare quest’asse – in Sicilia il feeling è più accentuato che altrove – a costo di riportare numerose perdite (la Meloni) e, forse, di non riuscire a eleggere un sindaco di tutti. L’ultima suggestione del segretario leghista, di cui Salvini ha parlato durante il Consiglio federale, è proporre una federazione che comprenda autonomisti, centristi e civici allo scopo “di allargare più possibile il perimetro”. La lista si chiamerà “Prima l’Italia”.

Comunque andrà, il centrodestra sta utilizzando ogni mezzo per ripetere la clamorosa debacle dello scorso autunno, dove venne sconfitto ovunque: a Milano, con le percentuali catastrofiche di Luca Bernardo, il medico con la pistola; ma anche a Napoli, Roma e Torino (sebbene nel capoluogo piemontese il ko sia giunto al ballottaggio). Una Waterloo che doveva fungere da lezione e che invece, passo dopo passo, ha finito per sottolineare le divergenze, destabilizzare gli umori, allontanare la pace. Un cocktail di rabbia e rivendicazioni che allontanano l’obiettivo del centrodestra unito – forse archiviandolo una volta per tutte – ma che soprattutto non consegnano a Palermo una scelta di rottura, in cui riporre la speranza del dopo Orlando. L’unica differenza sta nei nomi: a Roma e Milano furono schierati perfetti sconosciuti. A Palermo no. Solo minestre riscaldate.