Luca Sammartino è certamente il pezzo più pregiato del mercato estivo. Solo che il mercato della politica, a differenza di quello del calcio, non chiude mai. Se un renziano è riuscito, nel volgere di qualche giorno, a passare con Salvini e portarsi dietro una grande schiera di deputati, senatori e amministratori locali, vuol dire che gli steccati della politica sono talmente bassi e le leadership talmente in crisi, che può succedere di tutto. Altro che vincolo di mandato: questa – la possibilità di poter passare da uno schieramento all’altro, modificando coalizioni e credenze – per i politici è la più grande delle conquiste. Tutt’a un colpo appare già vecchia, superatissima la proposta del Partito Democratico siciliano di introdurre disincentivi economici, nonché la decadenza delle commissioni di merito, per coloro che cambiano più volte gruppo parlamentare nel corso di una legislatura.
Il balzo di Sammartino da un Matteo all’altro, che nonostante i mal di pancia leghisti e il rallentamento delle ultime ore sembra una formalità, è un episodio che non modifica di una virgola gli scenari presenti. Il Carroccio, che acquisterà almeno un paio di parlamentari regionali, fa parte della coalizione di governo e numericamente la rafforza. Ma in ottica futura, la bilancia dei pesi e dei contrappesi, anche su Catania città, penderà più dalla parte di Salvini che non di Musumeci. La Lega avrà le armi e i numeri per incidere sulle scelte della coalizione di centrodestra, o addirittura per determinarle. Non è un caso che Salvini, dopo aver ceduto a Forza Italia la priorità in Campania e in Calabria (dove si vota prossimamente), e aver omaggiato la Meloni con la candidatura di Fitto in Puglia, rivendichi spazio nell’Isola. Sarà lui ad avere l’ultima parola sul prossimo candidato alla presidenza della Regione e sul prossimo candidato sindaco di Catania. Con Sammartino avrà aggiunto una freccia al suo arco.
Non è (soltanto) grazie alle 32 mila preferenze messe insieme nel 2017. Ma dell’establishment che, Renzi o non Renzi, che Pd o non Pd, rimane legato all’odontoiatra catanese, tessitore di tele fittissime. In forza al Carroccio arrivano la senatrice Valeria Sudano, il deputato regionale Giovanni Cafeo, un paio di sindaci del distretto catanese. Mentre rimangono in dubbio, almeno fino al prossimo confronto con Salvini, le posizioni di Marianna Caronia – che nel Carroccio ha già avuto la sua esperienza scottante, e ha cambiato sei gruppi in quattro anni – e Carmelo Pullara, un ras delle preferenze dalle parti di Licata. L’ex manager della sanità, però, è reduce da uno scontro con gli Autonomisti in occasione delle ultime Amministrative di Agrigento, quando il sostegno all’uscente Lillo Firetto (contro Franco Micciché, sostenuto dal Mpa) gli costò l’espulsione dal gruppo parlamentare e l’iscrizione al Misto. Vederlo nella Lega rischia di provocare una crisi di rigetto agli ex compagni, che col Carroccio hanno stretto un patto federativo solidissimo. Ma fin qui è quasi fantapolitica.
L’unica conferma è che sulla scena della politica siciliana si dimena una compagnia degli erranti inafferrabile e fluida, che sfugge al controllo dei leader. Un magma in continua eruzione. Sammartino sembrava diventato il braccio armato di Matteo Renzi, che in occasione della presentazione di Italia Viva a Catania, rivendicò un proprio candidato a palazzo d’Orleans. Tutti gli indizi portavano a lui. Si credeva potesse rappresentare l’elemento di congiunzione del campo largo e litigioso di sinistra. Ma con la presenza ingombrante del Movimento 5 Stelle, quel che restava dell’alleanza si è rotta, e oggi i reduci del renzismo – anche Cafeo è in uscita – sono in cerca di una ricollocazione.
Davide Faraone, dopo aver “contaminato” il Consiglio comunale di Palermo, dove oggi Italia Viva è il partito più rappresentato, ha ripiegato sul grande centro. Sui colloqui col Cantiere Popolare e l’Udc, allo scopo di individuare un percorso comune – ancorché precario e tutto da testare – per le prossime Amministrative (dove Forza Italia, per inciso, ha già annunciato un proprio candidato alla poltrona di sindaco). Alle Regionali, invece, il quadro si fa più convulso: l’Udc, ad esempio, continua a sostenere il bis di Nello Musumeci. E lo stesso Faraone ha dovuto ammettere che “ero e resto all’opposizione del governo Musumeci”, ma “sono consapevole che stiamo costruendo un percorso che ci porterà ad avere alcune contraddizioni nell’immediato”. Italia Viva, va da sé, perde il più grande oppositore del governo (celebre lo scazzo fra Sammartino e Musumeci sulle vicende giudiziarie del primo). A Palazzo dei Normanni, resta aggrappata alle figure di Edy Tamajo e Nicola d’Agostino, che traccheggiano. Ci sarebbe anche Laccoto, che sembrava in predicato di passare alla Lega: poi sono arrivate le smentite.
Ma la difficoltà a tenere in mano le redini dei partiti è evidente anche altrove. Micciché, ad esempio, non è riuscito a gestire la Caronia (transitata già un paio di volte nel gruppo azzurro), e nel corso di questa legislatura ha già dovuto rinunciare a parecchi ‘eletti’. Ragusa (Lega), Cannata (Fratelli d’Italia), Lentini (Fratelli d’Italia e Autonomisti), Genovese (Ora Sicilia e Misto). Forza Italia, tuttavia, ha saputo addirittura aumentare le adesioni, restando il partito di maggioranza relativa nel centrodestra (attualmente ne fanno parte 13 deputati regionali). Ma ha vissuto di scosse telluriche altrove: a Strasburgo, dopo un lunghissimo tira e molla, si è sganciato Giuseppe Milazzo, ex capogruppo all’Assemblea. Non gli è bastato frequentare Berlusconi al parlamento europeo per resistere alle lusinghe della Meloni. A Roma, si sono persi per strada Francesco Scoma (IV), Nino Germanà, Nino Minardo (entrambi sbarcati alla Lega) e, ultima della lista, Giusi Bartolozzi (la compagna di Armao), che dopo aver rotto col partito sulla riforma del processo penale, si è accasata al gruppo Misto. Il Partito Democratico, forse, è stato il più danneggiato dalla compagnia degli erranti: ceduti Sammartino e Cafeo, se n’è andata pure Luisa Lantieri, ch’era stata assessore di Crocetta. Si era perso per strada De Domenico, eletto all’Ars ma poi rimpiazzato da Laccoto (da subito iscritto nel gruppo dei renziani) dopo una sentenza del Tribunale di Palermo che lo ha dichiarato ineleggibile.
Gli ultimi assestamenti, però, fanno parte di un’altra ‘epoca’. Il capitolo del romanzo è cambiato. Deputati, senatori, sindaci si ‘vendono’ al compratore più facoltoso, al partito più gratificato dai sondaggi, all’idea che va più di moda: perché non vogliono perdere il treno delle prossime elezioni. Ambiscono – ma è umano – a riposizionarsi più in alto per strappare il collegio migliore. Hanno iniziato a costruire il proprio futuro, oltre che il futuro della propria terra. Sono già in campagna elettorale, alla ricerca dei big sponsor. Sbucano fuori come funghi, perché il tempo lo richiede. La situazione, anch’essa fluida e inafferrabile, del Comune di Palermo, dove Leoluca Orlando e i suoi assessori si sono consegnati letteralmente al Pd, apre a ragionamenti profondi. Stimola esperimenti nuovi, che vengono legittimati col ‘modello Draghi’. Avviene a palazzo delle Aquile, dove i Cinque Stelle però non amano Orlando. E avviene a palazzo dei Normanni, dove l’intesa per allargare a tutte le forze europeiste (compresi i grillini e Forza Italia) non è più così lontana. Pur di vincere va bene tutto. Ci sarà sempre la giustificazione che a Roma hanno appena portato a casa – tutti insieme –la temutissima riforma della giustizia, e che il periodo è critico. Come fai a contraddirli? Insieme è bello.