Claudio Fava rispetta la parola data: per questo sosterrà Caterina Chinnici. Ma anche perché ritiene che sia “la migliore opzione possibile: per le qualità personali e politiche, per la sua esperienza da europarlamentare, per la coalizione che la esprime. Ma dirselo al tavolino di un bar è una cosa, imprimerlo nella carne viva della campagna elettorale è un’altra”. Su questo il deputato dei Centopassi, presidente della commissione regionale Antimafia, appare fuori dalla propria comfort zone: “Sono un politico di vecchio impianto e ritengo che la competizione elettorale abbia bisogno di un’altra generosità. Mi pare che la campagna di Caterina non sia ancora cominciata”.
Perché lo dice?
“Non si può ridurre tutto all’attesa di un paio di grandi eventi con gli ospiti d’onore romani. Le campagne elettorali sono altro. E pretendono altro”.
Cioè?
“Provare a comunicare un’idea, un progetto, le sue discriminanti. Anche le profonde differenze culturali rispetto alla destra che negli ultimi cinque anni – a detta dei media e dell’opinione pubblica – ha espresso la peggior stagione di governo della storia dell’autonomia siciliana. Eppure anche su questo tema si procede con infinita prudenza, come se stessimo calpestando gusci d’uova”
Se siete così diversi, come convincerà i suoi elettori a votare Chinnici?
“Il fatto che la campagna elettorale non sia ancora partita non significa che Caterina Chinnici non possa essere un ottimo presidente. Aspetto solo che cominci a farsi sentire”.
La fuoriuscita dei 5 Stelle dalla coalizione progressista vi indebolisce?
“Qualcosa abbiamo perso. La partita è difficile, ma resta aperta. Perché a destra si giocano lo spazio politico vitale tre candidati: il più forte è quello della destra ortodossa, Schifani. Ma è un candidato di destra, in una lista sostanzialmente proiettata in quella direzione, anche Armao, che fino a qualche istante fa era espressione di Forza Italia, assessore al Bilancio e vice di Musumeci. E De Luca, che certamente insegue un voto trasversale, ha una connotazione culturale e politica che lo pone nel centrodestra. Mi lasci dire, però, che la caratteristica di queste elezioni è la grande mobilità elettorale. Non lo considero necessariamente un buon segno: al contrario, mi sembra un indizio dello scadimento dello spirito politico”.
I transfughi stanno ovunque.
“E’ già successo in passato che deputati eletti col Pd, come Sammartino, siano passati alla Lega. Ora accade che un ex segretario della Camera del Lavoro (Angelo Villari, ndr) si candidi con De Luca. Questo vuol dire che per molti candidati il pensiero dominante, in questa campagna elettorale, non è tanto un progetto politico, un contenuto, un obiettivo, una coerenza rispetto alla propria storia ma solo l’obiettivo d’essere eletto. Come se le liste fossero diventate agenzie di collocamento: se un’agenzia non funziona, ti rivolgi a un’altra. Questa è anche una delle ragioni per cui noi riproponiamo il progetto dei Centopassi”.
In cosa è diversa la sua lista?
“Abbiamo candidati che spesso provengono da mondi diversi, rispetto alla politica militante, ma che stanno tutti dentro un sentimento comune, una comune intenzione: dal presidente dell’associazione antiracket di Catania, alla più giovane presidente del Consiglio comunale d’Italia (a Carini), passando per il volontario, il professore, il sindacalista, lo studente… Chi sceglie i Centopassi sceglie la coerenza di un percorso avviato nel 2017, che esce rafforzato da un lavoro di cinque anni all’Ars”.
Conte ha cercato un pretesto per rompere: la presenza di ‘impresentabili’ nelle liste del Pd. Il giorno dopo la rottura, però, Chinnici li ha messi alla porta. Perché non accordarsi prima?
“Se fosse una persona intellettualmente onesta, Conte dovrebbe ammettere che, dopo aver fatto due calcoli, ha capito che sfilarsi dal campo largo avrebbe portato al M5s qualche decimale in più nelle preferenze. L’unica ragione è questa. Sono giunti alla rottura dopo un teatrino politico minuscolo: prima il programma, poi gli assessori, poi il listino, infine gli “impresentabili”. Proprio Di Paola, che è il loro aspirante governatore, mi disse che secondo lui queste persone andavano candidate perché stavano dentro i paletti del codice deontologico del Pd e in linea coi requisiti richiesti dalla legge Severino”.
Restando alla ‘questione morale’, Chinnici ha detto in un’intervista che “il mio nome è una storia e quella storia ha un significato ben preciso per me e per le persone che mi sostengono”. Basterà a farla eleggere?
“Io non mi sono mai permesso in 30 anni di fare riferimento a una presunta ‘storia del mio nome’, che pure racconta una delle pagine più dolenti della Sicilia. Claudio Fava s’è candidato con la propria faccia, le proprie ragioni e le proprie idee, non con la storia del proprio cognome. Per gli elettori non siamo garanzia in virtù del nostro lignaggio familiare, ma per quello che ciascuno di noi ha fatto, ha detto, per come si è schierato nella concretezza delle battaglie politiche, per la tenacia con cui ha perseguito la verità”.
Lei non ha avuto l’esigenza di schierare magistrati in lista. Perché molti partiti ne sentono il bisogno?
“Probabilmente l’immagine dell’antimafia, negli ultimi 15-20 anni, ha cercato riconoscimenti facili e immediati. Diciamo una semplificazione comunicativa e verbale. Dire che ‘noi abbiamo il magistrato’ equivale ad essere al di sopra di ogni sospetto. Io credo che sia un errore, e certo qui non parlo di Caterina Chinnici: è un discorso generale. Non è il magistrato, il giornalista o il “figlio di” che garantisce la qualità del progetto politico. Conta la persona, non il biglietto da visita che porta in tasca. Scarpinato, De Magistris, Ingroia… Raccontano lo stesso mestiere, ma con sguardi, temperamenti, culture politiche e linguaggi completamente diversi. Non è il mestiere che conta, ma il modo in cui lo interpreti e lo racconti”.
Il coinvolgimento di Schifani nel processo Montante lo rende un candidato più debole di fronte all’opinione pubblica?
“Lo rende un candidato opaco. Le accuse sono precise e fanno riferimento a informazioni riservate che sarebbero poi servite a Montante. Che Montante rappresentasse il terminale di un sistema di potere, con addentellati a tutti i livelli della politica, è un fatto giudiziariamente acclarato. Che la sua vicenda resti una pagina oscura è certo. Che quella pagina oscura sia stata ulteriormente oscurata in questi anni, è un fatto altrettanto sicuro. La commissione antimafia dell’Ars è l’unica ad aver preteso e condotto un approfondimento d’indagine. Non per fare il processo bis a Montante, ma per capire quanti e quali cerchi d’amicizia, d’interesse, di consenso, di opportunismo si fossero consolidati attorno a lui. Eppure di questo non si parla più, non perché la gente sia distratta, ma perché non conviene: se continuassimo ad approfondire, dovremmo arrivare a uomini e fatti sui quali si preferisce far scivolare un cauto e felice oblio”.
L’assenza di Musumeci da questa competizione elettorale toglie ai siciliani un metro di valutazione sull’operato del centrodestra?
“Toglie una persona che ha dato dimostrazione di grande viltà politica. Fino al giorno prima aveva detto di essere candidato, poi ha barattato la sua non candidatura con un seggio sicuro al Senato. Ipotesi che, alla vigilia, aveva sdegnosamente respinto al mittente. L’avatar di Musumeci spesso accetta le cose per le quali l’originale si mostra sdegnato. E’ successo col voto segreto, con la candidatura al Senato, ma la lista è molto lunga. Mi rincresce ammetterlo, ma cinque anni fa avevo di lui un’opinione politica assai diversa”.
De Luca, nel suo sfogo contro il collega Pipitone del Giornale di Sicilia, ha parlato di “poteri forti” e di “mascariamento” ai suoi danni. Era solo folclore o c’è dell’altro?
“Pipitone è persona al di sopra di ogni sospetto, De Luca però non è folcloristico. Ha sbagliato il bersaglio, ma è legittima la preoccupazione che in Sicilia i destini della cosa pubblica, delle scelte politiche di fondo, delle grandi operazioni siano decise da poteri forti, rispetto ai quali la politica è considerata un potere debole e vassallo. De Luca, spesso in modo sregolato, dice anche cose vere. I poteri forti sono il convitato di pietra con cui, chi fa politica in Sicilia, deve misurarsi: rassegnandosi a una funzione ancillare, come hanno fatto Musumeci, Crocetta e la banda dei loro pretoriani; o provando a dare fastidio, cosa che in un modo o nell’altro si è costretti a pagare”.