In una giornata di grandi sbadigli, l’unico a dare la scossa è Marco Falcone: prima accusa Luisa Lantieri di aver traccheggiato con il Pd, favorendo la sconfitta del candidato del centrodestra ad Enna; poi attacca la segretaria regionale – senza mai nominare Marcello Caruso – perché “non c’è stato nessun intervento in difesa della coerenza e dei valori del nostro partito”. L’intervento dell’europarlamentare di Forza Italia, eletto a Strasburgo con oltre 100 mila preferenze giusto qualche mese fa, riapre una ferita che pareva suturata. In realtà queste elezioni provinciali, che non hanno toccato le piazze né le corde dei cittadini comuni, hanno provocato solo enormi smottamenti all’interno delle coalizioni, specie del centrodestra.

“Più volte abbiamo segnalato la situazione di Enna, dove purtroppo la segretaria locale Luisa Lantieri non ha mai reciso i legami con il Pd, il partito in cui militava fino a poco tempo fa”, ha detto Falcone. Enna diventa il rigurgito peggiore di queste elezioni di secondo livello, in cui la “casta” ha avuto l’opportunità di decidere a tavolino nomi e alleanze, dando il peggio di sé. “Sono rimasta sconcertata dalla reazione scomposta dell’onorevole Marco Falcone – ha replicato la Lantieri -. Mi si accusa ingiustamente di tradimento, ma chi lancia queste accuse dovrebbe prima analizzare bene i dati: al nostro candidato Colianni mancano decine di voti del centrodestra. È evidente che nessuno, neppure io, avrebbe potuto controllare ogni singola preferenza o gestire dinamiche così complesse”.

Il colpevole va sempre ricercato altrove. Come già accaduto in aula, qualche giorno fa, all’Ars. Nessuno ha ufficialmente smascherato i 18 franchi tiratori della maggioranza che hanno sabotato la proposta di legge dell’assessore all’Economia, Alessandro Dagnino, per triplicare gli stipendi dei manager delle partecipate. Dietro il voto segreto prolifera il veleno amico. E’ accaduto in aula e anche ad Enna, ma non è andata meglio in altre realtà.

La corazzata di centrodestra ha perso anche la partita di Trapani, dove si è imposto Salvatore Quinci. Il sindaco di Castelvetrano, sconfitto, ha puntato il dito contro un pezzo di Forza Italia: stavolta l’accusa di tradimento è ricaduta sul capogruppo all’Ars, Stefano Pellegrino (da sempre in opposizione a Tony Scilla, già assessore all’Agricoltura).

Mentre a Siracusa, dove la coalizione si era già sfarinata per le Amministrative (ricordate le conseguenze del “caso Bandiera”?), ha vinto addirittura un esponente di Azione, sostenuto da Italia Viva: cioè il sindaco di Ferla, Michelangelo Siracusa. Al suo fianco, oltre al Mpa, anche l’ex patriota Carlo Auteri. Il parlamentare che, stando ad almeno un paio di inchieste giornalistiche (compresa quella della trasmissione Piazza Pulita su La7) avrebbe destinato oltre 700 mila euro di contributi regionali ad alcune associazioni controllate da familiari. Erano i contributi regionali destinati alla cultura, assegnati senza alcun criterio di merito e di trasparenza.

Con la cultura si mangia, eccome. Auteri, invitato a dimettersi dal gruppo parlamentare all’Ars, si era iscritto al Misto, ma di recente si è rifatto vivo coi vertici nazionali di FdI. Non con quelli regionali, data la sua incompatibilità con l’altro patriota di grido: quel Luca Cannata, ex sindaco di Avola, finito al centro di un altro scandalo. Avrebbe chiesto soldi in contanti ai suoi ex assessori per finanziare il partito. Sulla scorta di questa vicenda, la Meloni decise di mandare un commissario (l’irreprensibile Sbardella), ma entrambi – sia Auteri che Cannata – continuano a imperare facendosi la guerra. A Siracusa le schede dei patrioti (per evitare l’espulsione dal partito) sono rimaste bianche, così come quelle di numerosi forzisti.

A uscire coi rattoppi da queste elezioni di secondo livello è senz’altro la Dc di Totò Cuffaro. Non solo per non essere riuscita a ottenere la giusta considerazione da parte della coalizione sull’indicazione di alcuni candidati (hanno provato a esprimere il presidente sia a Ragusa che ad Agrigento), ma anche per i risultati conseguiti: la Democrazia Cristiana ha perso sia a Ragusa che ad Agrigento. Nella provincia iblea il candidato di Cuffaro e di Abbate, presidente della prima commissione all’Ars, è finito secondo (aveva contro il resto della coalizione); ad Agrigento il sindaco di Palma di Montechiaro, Stefano Castellino, ha ceduto con l’onore delle armi all’inciucio trasversale tra Forza Italia, Mpa, Pd e M5s. Hanno vinto i cosiddetti “civici”, Cuffaro ha perso. Ma l’ex governatore ha perso soprattutto alla vigilia: Schifani non ha mai speso una parola per sostenere le sue proposte, e Forza Italia e Lombardo l’hanno ostacolato in tutti i modi. Un ostracismo – non è il primo episodio e non sarà l’ultimo – che dovrebbe indurre qualche riflessione e un po’ d’orgoglio.

Anche a Caltanissetta la DC sosteneva (assieme alla Lega, Fdi e Noi Moderati) il sindaco di Niscemi Massimiliano Conti. E sapete cos’è accaduto? Conti ha perso. Si è imposto Walter Tesauro, sponsorizzato da Forza Italia, che ha superato anche la fastidiosa concorrenza del primo cittadino di Gela, Terenziano Di Stefano (per il quale ha sempre simpatizzato il Mpa di Lombardo).

Più che un’analisi del voto, al centrodestra servirebbe andare in analisi. Non possono bastare le affermazioni di Forza Italia al Consiglio metropolitano di Palermo (il 24%) e di Fratelli d’Italia a Catania per archiviare la pratica coi soliti comunicati trionfali. A proposito, eccone una sfilza, i più grotteschi. Cuffaro e la Dc addirittura esultano perché “la Democrazia Cristiana ad Agrigento ha raggiunto, con il 23,15%, un risultato straordinario con tre consiglieri eletti”, su un totale di 14 a livello regionale che contribuisce a scrivere “una nuova pagina della sua storia”. Sammartino si gode il successo alla faccia dei gufi che dicevano “la Lega non esiste”: 12 consiglieri eletti, tiè. Persino Schifani, che s’era goduto il pessimo spettacolo dalla poltrona di casa, esalta “un centrodestra rafforzato rispetto alle Regionali del 2022”. Peccato che ai tempi votarono i siciliani, mentre oggi è toccato alla casta. In realtà negli enti intermedi, la democrazia rimane sospesa. Almeno finché a votare (o a bocciare) non saranno i cittadini.