In questa maledetta Regione è sempre più difficile galleggiare. E le uscite dell’assessore all’Economia Gaetano Armao, che dopo aver chiuso l’accordo con Roma già fa proclami per disattenderlo (“Non accetteremo supinamente cure da cavallo, prima lo Stato ci dia tutte le risorse che deve darci” ha spiegato al quotidiano “La Sicilia”), non sono il modo migliore per avviarsi a una stagione di riforme che Nello Musumeci ha promesso al governo Conte in cambio della spalmatura del disavanzo da due miliardi in dieci anni. La Regione è commissariata e sotto scacco. Armao l’ha capito e inizia a scalciare con improvvido tempismo. Musumeci no. Tergiversa. Ha il dovere morale di assumersi le responsabilità e di mantenere la parola. Il suo governo dovrà onorare i patti, che di solito si stringono in due, per non ritrovarsi a marzo già con l’acqua alla gola.
Marzo è il mese della verità, a cui si lega il destino del governo siciliano e della legislatura. Non ridurre la spesa corrente del 3%, o non sforbiciare i costi della burocrazia o delle partecipate, come richiesto da Roma nel famoso accordo “salva Sicilia”, avrebbe conseguenze catastrofiche: l’annullamento dell’accordo stesso e la necessità di ripianare il disavanzo in tre anni anziché in dieci. Sarebbe come tornare al 23 dicembre, quando alcuni gruppi parlamentari, fra cui Italia Viva, ritenevano la concessione di questo “privilegio” alla Sicilia come “un dito in un occhio” nei confronti di tutti quegli amministratori che avevano operato in osservanza alle regole. E volevano farlo saltare. Il Consiglio dei Ministri ci ha fatto un regalino – dopo aver tolto parecchio alla Sicilia, questa è un’ovvietà – ma siccome non è tempo di regalini, bisognerà restituire questa fiducia con un importante tasso di interesse. La prima sfida siciliana del 2019 sarà, quindi, onorare gli impegni.
In questo percorso che si presume virtuoso, Musumeci avrà il compito di rispettare i paletti, e non di aggirarli, e soprattutto di tenere a bada il suo assessore di punta, che di recente gli ha regalato una sessione di bilancio infinita – di un anno, in pratica – per poi sentirsi dire dalla Corte dei Conti, in sede di parifica, che era tutto sbagliato. Ecco: un’ammissione di responsabilità da parte del governatore sulla sentenza dei magistrati contabili, sarebbe stato il primo passo per affrontare con spirito nuovo e rinnovato una delle stagioni di governo più difficili di sempre. Invece, da parte di Musumeci, nessun mea culpa. Nessun commento sul fatto che la Corte abbia ritenuto la manovra “approssimativa”, o che gli uffici del Bilancio non abbiano nemmeno presentato ai giudici i documenti richiesti. Il governatore ha fatto spallucce e si è dichiarato estraneo a qualsiasi coinvolgimento. Col solito refrain: “Mi conforta non essere mai stato responsabile degli elementi che hanno generato questa crisi”.
In questi due mesi che ci separano dal verdetto definitivo, che potrebbe includere – e in questo l’Ars dovrà farsene una ragione – l’adeguamento alle norme nazionali anche sul taglio dei vitalizi, il governo dovrà approvare, e poi far approvare da Sala d’Ercole, la manovra finanziaria. Il prossimo Bilancio di previsione, su cui incideranno i “tagli” (seppur più risicati rispetto alle previsioni) imposti dal “salva Sicilia”, è al momento impantanato in giunta, compresso com’è fra le esigenze dei vari assessori. In attesa di quello si varerà un esercizio provvisorio di due mesi, per garantire con la spesa in dodicesimi i pagamenti degli stupendi pregressi. Poi il giochino e l’attesa diventeranno una cosa seria. L’esecutivo dovrà proporre una Legge di Stabilità in linea coi bisogni della Sicilia, non della politica, cercando di evitare inutili forzature con i “collegati” che, come dichiarato da Musumeci, sono destinati alla pensione. Per questo, all’interno del Bilancio generale, e con tutte le ristrettezze economiche del caso, sarà ancora più arduo trovare la quadra.
Musumeci dovrà abbandonare, in definitiva, l’idea di trattare la Regione alla stregua della provincia di Catania, o di una qualunque provincia isolana. Dovrà uscire dai recinti di Ambelia, dove si è rifugiato crogiolandosi nel proprio brodo, e imporre nuova linfa. La Regione è la Regione. Pretende determinazione, competenza, spruzzate di decisionismo. Non galleggiamento. Perché a furia di galleggiare ci siamo ridotti a una stagione della semina – per usare le parole del presidente – che non lascia intravedere il frutto. Nella calda primavera che si appresta ad affrontare, Musumeci dovrà risolvere altre due grane prettamente politiche: il destino di Armao, a cui è direttamente legata la questione del rimpasto; e la nomina di un nuovo assessore ai Beni Culturali (a marzo ricorre il primo anniversario della scomparsa di Sebastiano Tusa).
Vicende che non rappresentano, va da sé, la prerogativa del popolo siciliano, ma che equivalgono un test Invalsi per la tenuta di Musumeci e per la sua capacità di individuare e affrontare i problemi. Non può il governatore non essersi accorto, in oltre due anni di legislatura, che l’assessore Armao rappresenta la continuità con la gestione contabile di un tempo, quella che ha ridotto la Sicilia sul lastrico e che adesso le impone cure dimagranti impossibili da sostenere per i suoi standard; e non può non aver capito che la sua presenza abbia ridotto ai minimi termini i rapporti col Parlamento e con il principale partito della maggioranza, Forza Italia, che da mesi vorrebbe aggiustare la giunta allo scopo di ripararla e non di stravolgerla. E non può un uomo maturo e comprensivo come Musumeci, non aver percepito l’esigenza, da parte degli operatori del settore (dai parchi ai musei, tutti sono interessati), di poter contare su una personalità che svolga le mansioni di assessore ai Beni Culturali per 24 ore al giorno e per 12 mesi l’anno, e non soltanto nei ritagli di tempo imposti dal ruolo, assai più espanso, di un presidente di Regione. Anche qui serve polso.
E poi il governatore dovrà finalmente pretendere chiarezza sulla “questione morale”, che ogni giorno di più va aggravandosi, come testimoniano l’inchiesta sull’eolico (che coinvolge parecchi esponenti del governo) e il numero-record di indagati dell’Assemblea regionale, ma anche sui costi e sulle funzioni dei burocrati sempre più malmostosi. L’ultimo aumento fino a 210 euro in busta paga per i dirigenti, grida vendetta di fronte all’odore di stantio che, una volta sì e l’altra pure, emergono dai palazzi e dagli uffici della Regione, con Musumeci che se n’è lamentato più volte. Il presidente ha promesso di far cadere delle teste se dal prossimo test interno di valutazione dovessero emergere dati sconfortanti (lo scorso anno fioccarono, però, i nove in pagelle). Su questo fronte non basta più l’immobilismo, tanto meno i buoni propositi: occorre una decisa inversione di tendenza, e il presidente non potrà più limitarsi alle ire social, destinate a rimanere senza incasso.
Ma per far ripartire davvero la Sicilia, serve una stagione di riforme chiare. Inequivocabili. Tangibili. Chiuso il percorso economico-finanziario, e dopo aver ottemperato alle richieste da Roma, bisognerà imbastire i tavoli con proposte nuove che non ricalchino quelle del 2019, che passerà alla storia come l’anno delle “leggine”: dalla pesca al diritto allo studio ai marina resort. Occorrono incentivi, strumenti, ricette che rimettano in moto il lavoro, che plachino la voglia dei giovani di emigrare e la voglia dei precari di protestare. Non perché abbiano perso la speranza, ma perché magari l’avranno ritrovata. Un insieme di riforme per evitare l’esplosione di nuove tensioni sociali e un fallimento che, carte alla mano, è sempre più facile da pronosticare. Marzo è alle porte. Sarà una primavera da resa dei conti.