La burocrazia vinicola che fa traballare il mito del Nero d’Avola

La battaglia del Nero d’Avola dimostra quanto la Regione resti impelagata in facezie, anziché ottemperare alle centinaia di problematiche che invadono la Sicilia. Da qualche giorno si sino riaccesi i riflettori sulla disputa con la Duca di Salaparuta, un’azienda siciliana che produce Nero d’Avola e Grillo e controlla due marchi storici dell’enoteca siciliana: Corvo e Florio. Alla Regione, che nel 2017 ha modificato il disciplinare, imponendo regole più ferree per l’imbottigliamento delle due varietà di vigneti – ricordate il discorso di Musumeci sui lacci e i lacciuoli? Questo è chiaro esempio di burocrazia vinicola – importa solo “favorire la produzione Doc” (lo dice una sentenza del Tar), cioè garantire al Consorzio Doc le royalties derivanti dal vino: due centesimi a bottiglia. Su una media di 70 milioni di bottiglie l’anno, fanno 1,5 milioni di euro.

Da due anni e passa, però la Duca di Salaparuta, che ha sempre prodotto Nero d’Avola Igt (Indicazione geografica territoriale) non ha voluto adeguarsi alle normative e passare all’unica ammessa dal disciplinare, cioè la Doc (denominazione di origine controllata), che comporta controlli più severi e sbarra la strada all’imbottigliamento fuori dalla Sicilia. Per l’azienda, però, questo è un chiaro limite alla concorrenza: infatti, ha presentato ricorso al Tar del Lazio, e ha vinto. Secondo i giudici amministrativi di primo grado, “la previsione solo per i vitigni Nero d’Avola e Grillo di un divieto di indicazione in etichetta pregiudica in modo rilevante le potenzialità commerciali dei produttori di vini a indicazione geografica protetta, limitandone la libertà di concorrere con i propri prodotti nel mercato del settore”.

Un colpo basso per la Regione, che ha scelto di ricorrere al secondo grado della giustizia amministrativa, ossia al Cga. Altro che calice della concordia. Il Nero d’Avola deve essere Doc, o non è più Nero d’Avola. Nel frattempo sono scesi in campo – per appellarsi, va da sé – anche il Ministero dell’Agricoltura e l’Antitrust. Tutti in difesa dell’economia e, vi faranno credere, della tradizione. Ma a nessuno è venuto in mente di valutare i rischi che deriverebbero dalla sospensione dell’attività della Duca di Salaparuta: adeguarsi alle normative Doc richiederebbe qualche anno di stop della produzione e una lenta ripartenza. In mezzo a tutte queste sigle, si fatica a rimanere sobri. Gli unici a cui è richiesto di esserlo, d’altronde, sono i giudici.

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