La beffa del carrozzone Esa

Gaetano Armao e Nello Musumeci, rispettivamente ex assessore all'Economia ed ex presidente della Regione

“L’ultimo carrozzone della Prima Repubblica”, a cui Musumeci aveva preparato la festa – cioè una legge soppressiva, che però all’Ars non è mai stata discussa – costerà alla Regione siciliana la bellezza di 120 milioni di euro. Così ha deciso la prima sezione del Tar Sicilia. La sentenza, pubblicata il 9 dicembre, è il sequel di una trama fitta e sconsiderata che si trascina ormai dal 2007, quando il governo di Totò Cuffaro, nell’ambito di un processo di patrimonializzazione, vendette alcuni immobili al fondo Fiprs (il fondo immobiliare della Regione). Tra questi, cinque edifici appartenenti all’Esa, di cui l’Esa non è stata mai ripagata (nonostante una sentenza del Tar, nel 2015). Si tratta di un fabbricato e due complessi immobiliari a Catania, di un fabbricato per uffici in via Libertà a Palermo e di un altro complesso immobiliare, sempre sito a Palermo, in via Corso dei Mille.

All’epoca venne stipulato un “accordo di programma” secondo il quale la Regione avrebbe dovuto assicurare all’Ente di sviluppo agricolo, per i nove anni a seguire (fino al 2015), un contributo annuale pari a quello erogato nell’esercizio 2006 per il proprio funzionamento: cioè 32,5 milioni di euro. Oltre al contributo relativo agli investimenti, parametrato alla cessione degli immobili. Che oggi rappresenta il vero motivo del contendere. Secondo l’ente ricorrente, cioè l’Esa, questa cifra ammonta a 33,5 milioni, da cui discende la somma dovuta di 3,7 milioni annui per 9 anni. Secondo la Regione, invece, è molto inferiore: al netto degli importi già erogati dai due assessorati “insolventi” (Agricoltura ed Economia), il debito residuo si attesterebbe sui 4 milioni circa. In totale.

Il Tribunale Amministrativo, però, ha dato ragione all’Esa. Fra il contributo per il funzionamento e quello per gli investimenti, il conto ha assunto proporzioni abnormi: poco meno di 120 milioni, che gli assessorati sono condannati a corrispondere “entro il termine ultimo di giorni centoventi dalla comunicazione in via amministrativa (o dalla notificazione ad opera di parte, se anteriore) della presente sentenza”. Quindi entro la primavera. Quando non è ancora chiaro se l’Ars avrà approvato o meno la Legge di Stabilità. I ritardi della Corte dei Conti, che si pronuncerà sul giudizio di parifica solo a fine gennaio, costringerà la Regione a rivedere i piani. Il pagamento nei confronti dell’Esa, potrà avvenire tramite il riconoscimento di un altro debito fuori bilancio. Un buco “a sorpresa” nei conti, l’ennesimo passivo da ripianare.

Questo episodio, al netto delle cicatrici impresse alle casse di palazzo d’Orleans – già provate da una crisi di liquidità senza precedenti – è grottesco da ovunque lo si osservi. Non solo “l’ultimo carrozzone della Prima Repubblica”, per dirla con Musumeci, è ancora in vita. Ma fa più danni che altro: l’Esa, pur essendo un ente vigilato dalla Regione, e pur avendo subito nel tempo il controllo determinato della politica (del Pd prima, di Musumeci poi), per evitare di incorrere nel reato di danno erariale, ha dovuto affidare, nel luglio 2019, un incarico di patrocinio “finalizzato all’attività di recupero del credito vantato dall’E.S.A. a seguito della sentenza del Tar di Palermo n.1907 del 10/07/2015 passata in autorità di cosa giudicato”. Cioè, sulla base di una prima sentenza che la Regione non ha mai onorato, ha dovuto rivalersi su una Regione che, allo scopo di gestire un immenso patrimonio immobiliare (l’ente conta numerosi palazzi, anche a Palermo), e assegnare qualche poltrona, l’ha tenuto in vita nonostante le enormi carenze funzionali.

In parole povere: oggi è difficile capire quali mansioni abbia l’Esa. Nell’ultimo periodo Musumeci l’ha lodata per aver provveduto alla sanificazione dei luoghi di lavoro, mentre una volta si preoccupava della sistemazione delle strade interpoderali e, più di recente, di ricerca scientifica. Detto questo, il capitolo “poltrone” merita un approfondimento: il direttore generale dell’Esa, fino al 2019, era il dottor Fabio Marino, che aveva fatto parte della segreteria tecnica dell’ex assessore all’Agricoltura Antonello Cracolici, del Pd. Anche i due consiglieri del Cda, fatto decadere la scorsa estate per la mancata approvazione dei rendiconti, sono state figure legate al Pd. Mentre da qualche tempo il centrodestra ha provato a farsi spazio: prima piazzando nel ruolo di presidente del Cda Nicola Caldarone, che è anche un componente della segreteria tecnica di Bandiera, oltre che dirigente di Forza Italia (fu costretto a dimettersi nell’ottobre 2018, poi rientrò dalla finestra come commissario ad acta); poi, puntando su un delfino del presidente Musumeci, quel Giuseppe Catania che è stato deputato regionale di FI e oggi riveste il prestigioso incarico di presidente dell’assemblea di Diventerà Bellissima. Rimane vacante un posto di consigliere nel Cda, mentre – dopo la cancellazione “sospetta” di un atto d’interpello pubblicato in piena estate – il direttore generale facenti funzioni è Dario Cartabellotta, consumato dirigente regionale.

Le nomine sono una prerogativa della politica. Ma è beffardo che gli uomini incaricati dai politici, per una strana legge del contrappasso, abbiano determinato le condizioni affinché l’Esa potesse rivalersi sulla Regione per 120 milioni. A portare a casa la sentenza è stato – per inciso – l’avvocato palermitano Enrico Cadelo. Tutto questo dovrebbe rappresentare un monito: le partecipate, o gli enti vigilati come nel caso dell’Esa, rappresentano una voce “fuori controllo” nel fitto panorama del sottogoverno siciliano. Da sempre. Il mantenimento di enti in disuso, sul modello di Sicilia Digitale, o di Riscossione Sicilia, o di Sicilia Patrimonio Immobiliare (oggi in liquidazione), sono la cartina di tornasole di una Regione poco attenta al fenomeno degli sprechi, che continuano a condizionare la gestione economica dell’Isola. Tant’è che lo scorso anno, dopo aver ottenuto il giudizio di parifica della Corte dei Conti e la spalmatura del disavanzo in dieci anni da parte del Consiglio dei Ministri, venne adottata una delibera per ridurre del 5% le spese di gestione delle società partecipate e chiudere le liquidazioni entro il 30 giugno 2020. Macché.

La galassia delle società direttamente (o indirettamente) riconducibili alla Regione è variegata. Le partecipate “dirette” sono ufficialmente quattordici. Tre di esse – la Società interporti siciliana (Sis), Sicilia Digitale e il Parco Scientifico Tecnologico – per volontà dell’assessore all’Economia, Gaetano Armao, potrebbero finire accorpate, allo scopo di creare una sola società “che fa innovazione e ricerca”. Sicilia Digitale, la società informatica della Regione che passò (anche) fra le mani dell’ex giudice Antonio Ingroia, ha un amministratore unico: si chiama Carmine Canonico e non percepisce compensi, ma gli incarichi dirigenziali non mancano (per 47.500 euro l’anno). I dipendenti sono 88. La cosa più drammatica è che la vecchia Sicilia e-servizi non becca più una commessa. Ha esaurito la sua funzione perché non è in grado di sostenerla (il personale non è all’altezza del compito). Gridano vendetta pure le varie Sas, Resais e via discorrendo, diventati un autentico di bacino di disperazione. Dove ex lavoratori a cui è stato strappato un futuro, vengono mantenuti per inerzia.

Un’altra questione in sospeso è quella di Espi. L’ente siciliano per la promozione industriale, avamposto di una Regione che negli anni ’60 ha accarezzato il sogno di diventare impresa, è tuttora vivo (anche se fantasma). Per vent’anni, fino all’avvento del governo Musumeci, il commissario liquidatore è stata la professoressa Rosalba Alessi. A tenere attaccato l’Espi al respiratore artificiale, nell’ultimo quinquennio, è stata una sola causa di risarcimento civile, intentata da un dipendente della casa vinicola Duca di Salaparuta. Assistito, fino al 2017, dall’avvocato amministrativista Gaetano Armao. Lo stesso che, nelle vesti di assessore, entro il 2020 spera di chiudere la partita di una società succhiasoldi: tuttora il Collegio dei Revisori dei Conti genera “uscite” per 16 mila euro l’anno.

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