Jorge e il suo doppio. Che è il crisma della “argentinidad”, il carattere, il segno distintivo, la condizione umana di chi è argentino, per usare la definizione della Real Academia Española.
Lo mette in chiaro in tutta la sua enciclopedica opera lo scrittore saggista poeta filosofo accademico bibliotecario traduttore Jorge Francisco Isidoro Luis Borges, detto Jorge Luis, monumento letterario del Novecento.
E lo testimonia, per un altro verso, l’altro celeberrimo Jorge argentino, Jorge Mario Bergoglio, che compie ora nove anni di pontificato e non perde occasione per ribadire il suo orgoglio di essere “porteño”. “Porteño” di diritto. Nato nel 1936 a Buenos Aires, la città sull’estuario del Rio della Plata, che è fiume ma sembra mare. Jorge Uno e Jorge Dos, dunque. E viceversa.
Come nel film “Tangos, el exilio di Gardel” capolavoro di Fernando Solanas, in cui il protagonista si sdoppia in due persone: Juan Uno e Juan Dos, entrambi “tangueros”. A Parigi Juan Dos vive con nostalgia l’esilio, ma si specchia nella malinconia di Juan Uno che, rimasto a Buenos Aires, annuncia di continuo una partenza che non avverrà mai. Ambientato alla fine degli anni Settanta, mentre in Argentina infieriva la dittatura militare del generale Videla (anche lui Jorge, ma è un’altra storia) il film tratta di un gruppo di artisti argentini espatriati in Francia. Ballerini, cantanti e suonatori di bandoneόn provano a mettere in scena lungo le rive della Senna uno spettacolo dedicato a Carlos Gardel, “el rey”, colui che ha liberato il tango dai suoi legami plebei e ha fatto del ballo “porteño” la metafora universale della “argentinidad”.
Nella trama lo spettacolo non viene mai realizzato, bocciato dai finanziatori francesi che lo trovano troppo argentino, troppo lontano dai gusti europei. Ma intanto rimane, film nel film, la struggente narrazione di Solanas, un’opera premiata alla Mostra di Venezia nel 1985 che è una vera e propria antologia del tango con la voce di Gardel e le musiche di Astor Piazzolla.
Per capire questo gioco di riflessi, di rimandi, di convergenze parallele tra madre patria Europa e dimensione australe in cui tutto è invertito, persino le stagioni, pur essendo uguale, bisogna tornare a Jorge Luis Borges, anche lui “porteño”, essendo nato nel 1899 a Buenos Aires – Baires con un’abbreviazione. Così chiamata nel Cinquecento dai “conquistadores” in onore di “Nuestra Señora del Buen Aire”, il buon vento dei marinai.
Qui ogni “visione del mondo è relativa, comunque una delle tante approssimazioni possibili”, dice Borges.
Basta prendere una delle sue raccolte di racconti, “Finzioni”, emblematica già nel titolo, pubblicata nel 1944 e tanto famosa che da noi ha ispirato anche cantautori come Guccini e Vecchioni.
Già in premessa il libro si divide in due, la parte de “Il giardino di sentieri che si biforcano” e la parte di “Artifici”. Bivi fittizi per narrazioni che si snodano attraverso i canoni del poliziesco, del racconto fantastico o simbolico. Con un solo punto in comune: il doppio.
Nulla è proprio come viene raccontato. La realtà è una parvenza. Anzi, appunto una “finzione”. C’è il tango dell’eterno ritorno, “Volver” di Carlos Gardel dove la coscienza dell’assenza affligge l’anima, c’è la storia di un luogo crocevia di “gringos” in arrivo dall’Europa e di “gauchos”, signori delle sterminate praterie della pampa, c’è il volto duplice di Giano bifronte, il dio romano degli inizi e dei passaggi dietro ogni accadimento. Ogni medaglia ha dritto e rovescio, si sa.
Non è un caso che a Buenos Aires ci sia in percentuale il maggior numero di psicanalisti di tutto il mondo. Una megalopoli di quasi quattordici milioni di abitanti (se si considera l’intera area metropolitana, “Gran Buenos Aires”), tutti stesi sul lettino. Con orgoglio. Perché prima o poi nella vita bisogna fare i conti.
Tra i terapeuti c’è chi ha perfino trasformato il suo lavoro in serie televisiva. “Historias de diván”, per esempio. Seguitissima. Altro che la nostra banda canterina di virologi.
“Palermo Viejo”, il quartiere dove ha vissuto Jorge Luis Borges, oggi cuore della movida culturale e artistica di Baires, con le sue botteghe di design, i suoi baretti alla moda, i graffiti sui muri, le case che si affacciano su giardini smaglianti, è stato ribattezzato negli anni “Villa Freud”.
Lo stesso Jorge Mario Bergoglio, dopo il diploma di perito chimico, la scoperta della vocazione a 19 anni e la laurea in filosofia nel 1963, già novizio, ha insegnato psicologia per qualche anno, prima di essere ordinato sacerdote nel ‘69.
Meno di quattro anni dopo divenne Padre Provinciale della Compagnia del Gesù per l’Argentina e in questi vesti dovette misurarsi con una delle dittature più crudeli della seconda metà del Novecento. Vicende ambigue. Circondate da mistero ancora oggi, o forse a maggior ragione oggi.
Forse proprio perché in quelle terre lontane, “alla fine del mondo”, terre di frontiera già nei secoli del Vicereame del Perù con Lima capitale delle colonie spagnole e le miniere di argento del Potosí, oggi in Bolivia, “venas abiertas de America latina”, il verso della medaglia diventa difficile da discernere.
Il concatenarsi di eventi tragici: “desaparecidos”, voli della morte, torture di massa che compresero religiosi, perfino gesuiti come il padre Provinciale Bergoglio, neonati strappati alle mamme detenute e consegnati nelle mani dei militari; le oggettive difficoltà nell’affrontarli, non spiegano i dubbi. Piuttosto, lasciano linee d’ombra e cuori di tenebra.
Per gli argentini è ancora carne viva, ferita aperta. “Non si era mai arrivati alla brutalità che ha contraddistinto il regime di Videla (che si professava cattolico ed era legato alla Loggia italiana P2 di Gelli). Tra il 1976 e il 1983 è stata spazzata via un’intera generazione”, ha scritto l’avvocato e saggista “porteño” Alvaro Ábos.
Non è difficile verificare che il primo papa regnante latinoamericano, il continente che conta più di un terzo del miliardo e 285 milioni di cattolici nel mondo, non è particolarmente amato nel suo paese natio. E forse è questa la ragione per cui, pur avendolo sorvolato e visto da vicino, nei molti viaggi intorno al Sud America, non vi ha più messo piede.
In verità è un “enigma Bergoglio”, come dice il saggista Massimo Franco in un libro recente che prende in esame “La parabola di un papato”. Con decine di interviste: cardinali, vescovi, banchieri, diplomatici, uomini dei servizi.
Ne viene fuori un papa “con un volto privato che stride con quello pubblico”.
Sempre preoccupato, – come ha mostrato anche nell’ultima intervista a “Che tempo che fa” – del “chiacchiericcio”, che è, certo “un attacco all’identità”, come ha detto a Fazio, ma è anche tendenza a silenziare ogni critica, a considerare maldicenza, se non attacco personale, ogni riserva espressa.
Un papa da primati. Il primo gesuita nella storia della Chiesa, il primo a scegliere di chiamarsi Francesco, mettendo assieme due visioni spirituali, due storie del mondo finora separate, il primo a succedere dopo seicento anni a un altro papa che si è dimesso lasciando il suo ministero.
Il Santo Padre è oggi l’unico leader mondiale a impatto globale. Secondo Massimo Franco, “un papa magistrale nel destrutturare una Chiesa già in crisi, meno abile nel costruirne un’altra”. Un vescovo venuto dall’altro emisfero, quindi con eccellenti intuizioni sulle “periferie”, che se non vengono governate e integrate, “tendono a divorare dall’interno le società, i diritti e la democrazia”.
Un grande comunicatore che conosce l’impatto dell’immagine come “forma per eccellenza” e a marzo 2020, in pieno lockdown, si fa ritrarre da solo nella vastità desolata di Piazza San Pietro battuta dalla pioggia, col Crocifisso ligneo “bagnato dalle lacrime del cielo” come ha scritto allora, non senza retorica, il portale ufficiale Vatican News. Un uomo complesso. Inafferrabile. Jorge e il suo doppio.