Nel bel mezzo del caos romano, tra i passi di tarantella attorno al Quirinale di Gigino Di Maio e i giochi di tattica dell’abile Salvini sul governo che comunque vede la luce, c’è qualcuno che resta a guardare. È il Partito democratico, che come un pirandelliano personaggio in cerca d’autore, s’arrabatta in cerca di una leadership e di una mission. Tra tentazioni uliviste, suggestioni macroniane e spettri di scissione, le gesta dei dem restano ancorate al caos cosmico che alberga nel partito delle correnti fratricide dalla sua nascita.
E se a Roma il partito acefalo resta nel caos, figurarsi in Sicilia. Qui ormai chiedersi chi comanda nel Pd è un esercizio inutile come aggiungere acqua al mare. Il partito, dopo la scoppola delle Politiche, con risultati da pianto greco, è ancora sotto choc. E senza guida. O forse con troppe guide, che non guidano. La pattuglia dei deputati nazionali, il cui futuro è appeso a un filo per come si sono messe le cose a Roma, è tutta di stretta osservanza renziana. Deputati e senatori gravitano attorno a Davide Faraone, tutti tranne Fausto Raciti, che sarebbe ancora segretario ma che ha esaurito il suo mandato, e che a Roma sta con Matteo Orfini, cioè l’alleato più stretto di Renzi.
Faraone si prepara a lasciare l’auto blu da sottosegretario e da un po’ piazza video su Facebook con caschetto e motorino, in pieno stile movimentista. Anche all’Ars la maggior parte dei deputati è vicina a lui. A lui e al renziano forte di Catania, Luca Sammartino, mister 30mila e passa voti. Si può dire che comandino? Non proprio, non del tutto. Magari ci provano. Come a modo suo ci prova, o forse ci ha provato Leoluca Orlando, che prese la tessera dei dem dopo lunghi dissapori col partito, convinto forse che nel marasma generale un veterano navigato e raffinato del suo calibro avrebbe avuto vita facile a fare un sol boccone degli aspiranti leader. Così non è andata, l’orlandizzazione del Pd non si è vista e al Professore tocca ancora aspettare.
Come aspetta Antonello Cracolici, che non è più l’uomo forte, fortissimo anzi, dell’anima ex Ds del partito, come nella legislatura di Lombardo o in buona parte di quella di Crocetta. L’ex capogruppo però resta un big del partito e quando parla sa farsi ascoltare. Come Giuseppe Lupo, che vista la sostanziale e praticamente certificata assenza della segreteria, nelle sue vesti di capogruppo si muove sulla scena dell’Ars come unico leader visibile del partito, seppur con il suo consueto passo felpato e il suo equilibrio molto franceschiniano. Comanda? Magari no, ma c’è, e si vede, e di questi tempi questo non è poco.
Insomma, nessuno in realtà comanda in casa dem e basta buttare un occhio ai comuni in cui si vota per farsene un’idea. Si va alle amministrative in ordine sparso, con il vecchio centrosinistra ricompattato a Messina,coi dem acquattati senza simbolo a Catania, con due candidati diversi a Siracusa, con un candidato forte che ha caricato a bordo abbondanti pezzi di centrodestra a Trapani. Ci si arrangia, insomma, sui territori, aspettando che maturino i giochi per la segreteria nazionale e che i balletti dei populisti sul Colle finiscano in un modo o nell’altro. Poi magari si metterà mano al congresso regionale. Per eleggere un nuovo segretario e ricominciare a litigare il giorno dopo.