Sono solo le quattro del pomeriggio quando Salvatore D’Amanti, ginecologo e responsabile del Consultorio familiare 1 di Ragusa, raccoglie le cartelle cliniche sparse sulla sua scrivania. “Straniera”, “straniera”, “italiana”. A diciotto smetterà di contare. È il numero delle donne transitate quel giorno, un giovedì qualunque, dal centro che si affaccia su piazza Libertà: “Devo vederne ancora un paio”. I consultori rappresentano una fitta rete di sostegno che, nell’ultimo anno, ha garantito assistenza a circa 1.400 partorienti. Sono sedici in tutto il territorio provinciale (per una dozzina di comuni). Da qui passano soprattutto straniere: il conteggio di D’Amanti termina 10 a 8 per il resto del mondo. “Se la gravidanza è fisiologica, dopo un’attenta valutazione del rischio, restano in osservazione da noi fino alla trentasettesima settimana. Si tratta per lo più di donne fragili e senza punti di riferimento. Al mio consultorio, ad esempio, si è rivolta una folta comunità di nigeriane. Merito del passaparola”. Le straniere sono quelle che fanno più figli, come si evince dall’ultimo rapporto Istat sul tasso di fecondità. In media, un figlio in più delle italiane. Ma c’è un dato, nel complesso, a generare interesse e un pizzico di clamore. Fotografa la provincia iblea, che di certo non eccelle nei servizi per l’infanzia, come la più feconda a livello nazionale dietro Bolzano. Con un incremento notevole negli anni del Covid: le donne residenti a Ragusa, nel 2021, hanno partorito in media 1,45 figli (+0,08 rispetto al 2019). Nel 2022, il dato è in leggerissima flessione (1,43). Ma nulla a che vedere con quello nazionale (1,24), che il ministro Lollobrigida vorrebbe raddrizzare tutelando “l’etnia italiana”. Se prendesse come modello di riferimento ciò che accade nella provincia più a sud, dovrebbe ricredersi.
Il tasso di fecondità totale (Tft), sostanzialmente, è il numero medio di figli per donna. “A Ragusa è più alto che altrove, ma sempre molto inferiore rispetto al livello di due figli necessario per garantire il rimpiazzo della coppia di genitori”. Parola di Annalisa Busetta, professoressa di Demografia presso il Dipartimento di Scienze economiche, aziendali e statistiche dell’Università di Palermo. Prima però è utile una precisazione: “A causa della bassa fecondità registrata negli ultimi 30-40 anni – spiega Busetta – sono progressivamente sempre meno le donne in età riproduttiva e quindi il destino che ci attende è quello della diminuzione delle nascite o, nella migliore delle ipotesi, della loro stagnazione. E l’assenza delle madri è solo in parte compensata dall’arrivo di altre madri attraverso i fenomeni migratori”. Chi arriva, insomma, aiuta ad attenuare il crollo della natalità. Il tasso di fecondità delle straniere “iblee” è pari a 2,36, contro l’1,35 delle italiane. Le immigrate hanno anche più tempo a disposizione, giacché il primo parto, mediamente, arriva a 28 anni e 1 mese (contro i 32 anni delle italiane). E sempre a corredo del ragionamento, basta spulciare il dato dei saldi migratori dall’estero: in quest’area si è passati dagli 11 mila residenti stranieri del 2007 ai 30 mila del 2022. Flussi che riequilibrano le partenze. Ragusa, lo scorso anno, è stato l’unico capoluogo siciliano a non essere toccato dal processo di desertificazione demografica che investe il resto dell’Isola. La provincia iblea, secondo il rapporto “Migrazioni in Sicilia 2020” a cura dell’Istituto “Pedro Arrupe”, è l’unica con incidenza della popolazione straniera superiore alla media nazionale (pari al 9,3 per cento).
Bastano questi pochi indicatori per dar peso all’intuizione e tradurla in sostanza. Ma c’è anche un altro dato, estrapolato dal Servizio programmazione e controllo di gestione dell’Asp di Ragusa, che indirizza l’analisi e distribuisce un po’ meglio le responsabilità: nel 2022 le donne non italiane hanno contribuito per il 22 per cento al numero complessivo dei parti (circa tremila). Numeri che mostrano la specificità di Ragusa nel contesto siciliano. La comunità straniera più radicata, al 1° gennaio 2022, è quella tunisina, con oltre 8.700 rappresentanti (il 29,5 per cento del totale). Seguono rumeni e albanesi. Sphresa, professione domestica, appartiene a quest’ultima. Ha tre figlie e molti contatti con le connazionali più giovani: “Negli ultimi due anni ne sono arrivate tante. Da noi è una tradizione fare figli: di solito, non meno di tre. Due è nella norma. Per farne uno – si lascia scappare con un sorriso – deve essere successa una disgrazia”. Allargare la famiglia lontano da casa comporta rigidi schemi educativi, non potendo contare su servizi per l’infanzia così rodati, tanto meno sulla presenza di nonni o zii che accompagnino la crescita dei bambini: “I figli danno una mano a rimettere la casa in ordine e se ne prendono cura quando i genitori sono a lavoro. Inoltre, accudiscono i fratelli e le sorelle più piccole”, dichiara con piglio deciso.
Anche nella comunità tunisina c’è una naturale vocazione a procreare. “Anche se pian piano – spiega Ines, trent’anni da poco – ci stiamo uniformando alle abitudini del posto. Dipende molto dal luogo di provenienza. Molti miei connazionali, che abitavano nelle province più rurali, hanno mantenuto un approccio tradizionalista anche dopo il trasferimento in Italia: per loro è quasi obbligatorio fare tre-quattro figli”. Il motivo? “Quando i genitori diventeranno anziani, i figli se ne prenderanno cura. In Tunisia non esiste la logica delle case di riposo: è una specie di mancanza di rispetto…”. C’è dell’altro: “I ragazzi dovranno proseguire il lavoro che ha fatto il papà o il nonno. Erediteranno case e terreni che, per usanza, non possono andare agli estranei”. A guidare l’istinto (o il calcolo) riproduttivo è, infine, la ricerca del figlio maschio per garantire continuità alle generazioni. Sul tasso di fecondità delle donne straniere, come elemento trainante del dato statistico, punta la professoressa Busetta. A Ragusa, d’altronde, è molto più elevato rispetto alla media nazionale (1,90): “Gli studi dimostrano che le straniere appena arrivate, in generale, hanno una fecondità più simile a quella del paese d’origine; le donne che sono qui da più tempo, invece, ne avranno una più simile a quella del paese di destinazione”. La cultura della contraccezione, molto scarsa nell’immaginario collettivo, non giocherebbe invece un ruolo determinante: “Anche tra le italiane la contraccezione moderna è sempre stata scarsamente diffusa, ma ciò non ha impedito alle coppie di realizzare un basso numero di figli”.
A ridurre gli ostacoli fra la fecondità desiderata e la fecondità realizzata contribuisce anche un altro fattore: la qualità della vita. Occhio, però. La qualità della vita di cui si parla, in molte classifiche non compare. Nel rapporto annuale del Sole 24 Ore, infatti, Ragusa è all’85° posto su 107 province. Niente di eccezionale. Eppure, è francamente difficile trovare qualcuno che si lamenti delle condizioni di vita all’interno di un territorio che – va detto – non è a misura di bebè. Prendete gli asili nido: quella iblea è una delle quattro province italiane, assieme a Caltanissetta, Cosenza e Caserta, con meno di 10 posti ogni 100 bambini residenti nel 2020 (fascia d’età 0-2 anni). Un incubo. Ciò nonostante “dal punto di vista dell’attenzione ai beni e agli spazi comuni” la situazione appare diversa. La docente di Demografia elenca una serie di virtù che è difficile rintracciare ad altre latitudini, almeno in Sicilia: la sensibilità ambientale, la presenza di piste ciclabili, il dinamismo economico e, per gradire, sole e mare tutto l’anno: “Far crescere un figlio che può stare all’aria aperta e andare al parco rende tutto più facile – osserva Busetta –. Non ci sono servizi all’infanzia, ma ci sono ritmi meno frenetici. La provincia non ha un grosso centro attrattivo che fagocita tutto, come avviene ad esempio a Palermo, ma ha una popolazione un po’ più diffusa. E questo modello di insediamento rende meno difficile la conciliazione lavoro-famiglia e riduce il tempo impiegato negli spostamenti. Una situazione notevolmente diversa rispetto a quella delle grandi città metropolitane”.
La conferma arriva da Cesare Ammendola, psicologo e psicoterapeuta: “Il costo della vita – inoltre – è più sostenibile rispetto alle città del nord”. Poi passa in rassegna una serie di fattori che, assieme all’incidenza delle straniere e alla qualità della vita, avvalorano un’altra osservazione di Annalisa Busetta: cioè la leggera ripresa della fecondità fra le over-30, italiane comprese, a partire dal 2016. Sarà pur vero che non si spingeranno oltre la soglia ragionevole e ragionata dei due eredi, ma è altrettanto utile sottolineare la variazione: “Di certo non è merito dell’occupazione né del reddito pro capite”, sostiene Ammendola. Né degli incentivi offerti dalla regione siciliana, che in una recente proposta di legge depositata all’Ars da Fratelli d’Italia, prevede un impegno da 200 mila euro l’anno per omaggiare i nascituri con la bandiera della trinacria. “Una ragazza, anche senza un lavoro stabile, può contare sul supporto di una rete sociale strutturata, che va dai nonni agli zii – riprende lo psicologo –. C’è anche un’aspettativa culturale, legata al matrimonio e alla costruzione della famiglia, che in molti comuni del settentrione è una sfida quasi improponibile”.
Ammendola, spinto dalla nostra curiosità, si ferma ad approfondire: “Prendete l’aspetto logistico, specie nei comuni più piccoli: nelle case su più piani è diffuso trovare genitori e figli. O anche all’interno degli stessi quartieri, a distanza di poche decine di metri gli uni dagli altri. Questa dimensione antropologica ha una sua specificità e unicità, che va a sostegno di una coppia che vuole farsi una famiglia”. Ma non può gravare tutto sui nonni. Tra i corridoi del consultorio incrociamo Laura, disoccupata e due volte mamma: “Mio marito è londinese, a Ragusa ci sono solo i miei genitori che, due o tre volte a settimana, mi danno una mano con la più grande. Altrimenti sai che fatica… Per fortuna non lavoro, così posso dedicarmi ai bambini. Anche se la città non offre molto: a noi piace la natura, ci basta un picnic”. L’unico sostegno vero è il Bonus asilo nido, anche se, eccepisce Lucia, ingegnere sulla quarantina, “gli orari del nido sono troppo rigidi, dalle 8 alle 14. E poi? Io e mio marito lavoriamo entrambi. Grazie alla flessibilità del mio studio, mi organizzo di pomeriggio o da casa. Ma se uno dei due bambini si ammala, diventa complicato. Le energie diminuiscono: fare la mamma è un’emozione, ma il terzo non è in programma”. Ha avuto il primo figlio a 36 anni, dopo aver raggiunto l’arcinota “stabilità lavorativa ed economica” e aver trovato l’uomo giusto. “Nella nostra cultura – dice Ammendola –- sopravvive la fede nella coppia e nel matrimonio, legata certamente al retaggio culturale e alla religione cattolica”. Che incide, evidentemente, sul processo di formazione delle famiglie: secondo l’Istat, nel 2021, in provincia di Ragusa, si sono celebrati 1.080 matrimoni, di cui il 64 per cento con rito religioso (in Italia sono il 46). Darà fastidio e sarà scorretto politicamente: ma la “famiglia tradizionale” conserva il proprio fascino. Ed è un presupposto su cui si regge un pezzo dell’impalcatura.
C’è un’ultima variabile da considerare, che potrebbe aver inciso sul tasso di fecondità delle donne residenti: la pandemia. Potrebbe. Ma solo alla luce di una lettura superficiale e un filo spavalda, che vacilla di fronte al primo test di logica. Molta gente, prima dell’introduzione del lockdown, o dopo il “liberi tutti”, è rientrata alla base potendo lavorare in smart working. Il flusso da nord verso sud e la smania dei nativi digitali di dare un nome a tutto hanno portato a coniare una nuova espressione: South Working. “Ma questi ragazzi – ci scherza su lo psicologo – avevano più l’attitudine allo Spritz che non a farsi una famiglia. È una spiegazione che dovrebbe riguardare anche altre province siciliane, non solo Ragusa. Per questo mi convince meno”. La vista del barocco incanta, il rumore del mare ispira. Ma la correlazione tra good vibes e natalità resta tutta da provare.