Ci piacerebbe essere così ingenui da pensare che il ritardo nella nomina dei nuovi dirigenti generali – la scadenza originaria era fissata per il 16 febbraio – sia dovuta a un’attenta scrematura delle candidature che, stavolta entro il 31 maggio, definirà il quadro dei superburocrati regionali. Ma non siamo così ingenui. Anche in questa circostanza, infatti, le nomine saranno di tipo politico e la maggioranza deciderà in queste ore, e in parte l’ha già fatto, a chi assegnare cosa per il resto della legislatura. Non è detto sia un bel presagio, considerato quanto è avvenuto di recente nella sanità. Ma tant’è.
La tempistica del turnover non è casuale. La Regione ha già rimandato più volte: complice il Coronavirus, ma anche gli equilibri assai compromessi all’interno della coalizione di governo. La scelta dei capi dipartimento è solo la seconda manche di una partita più ampia, che qualche settimana fa ha portato al “congelamento” della giunta. L’unico innesto è stato il leghista Alberto Samonà. Ma proprio il segretario regionale del Carroccio, nei primi di marzo, ci ha dato le chiavi per leggere il momento. All’epoca Stefano Candiani premeva per ottenere l’assessorato all’Agricoltura, e in un’intervista a ‘Repubblica’ arrivò a sostenere che “lo staff dell’assessore e il dirigente generale devono avere la nostra fiducia e devono essere condivisi. Perché l’assessore da solo può far poco ed è importante avere una catena decisionale di fiducia. Lo dico senza giri di parole”.
Pieni poteri o meno, era un modo per mettere le cose in chiaro. Nessuno ebbe il coraggio, né l’avrà, di rivendicare la “separazione delle carriere” tra burocrazia e politica (che nei fatti, esiste già). Così come è immarcescibile il concetto legato alla fiducia: se un assessore deve poter incidere, il suo dirigente di riferimento deve seguirlo. Altrimenti il lavoro di entrambi va a rotoli. Sacrosanto. Solo che la spartizione della poltrone della pubblica amministrazione, che si gioca ormai a tutte le latitudini, conserva qualcosa di inquietante. E non può garantire il “merito” come criterio caratterizzante della scelta. Prendete, per l’appunto i Beni culturali. Il posto di dirigente è occupato attualmente da Sergio Alessandro, che negli ultimi mesi, dalla morte di Sebastiano Tusa, ha dovuto svolgere suo malgrado anche un ruolo di indirizzo politico, mancando la figura di riferimento. Musumeci, che ha svolto l’incarico ad interim, non si è visto quasi mai in commissione e ha messo lo zampino (la firma, s’intende) solo sui provvedimenti più importanti, da snocciolare poi in forma di comunicato stampa. Ogni tanto ha alzato anche la voce. Come sulla disputa fra l’istituto del dramma antico e il Parco della Neapolis sull’affitto del teatro greco di Siracusa.
Alessandro si è sobbarcato sulle spalle l’assenza di un “vero” assessore e il lavoro – compreso quello sporco – per dare un po’ di lustro alle nostre bellezze culturali, monumentali e paesaggistiche. Sradicando, attraverso provvedimenti mirati, le erbacce da molti siti storici e garantendo discreti numeri in termini di presenze turistiche (tranne nei piccoli musei, che continuano ad ansimare). Ora, stando alle cronache e alle premesse, Alessandro dovrà fare le valigie. Il nuovo assessore e il suo partito, la Lega, sembrano aver individuato un nuovo dirigente generale per il dipartimento ai Beni culturali e all’identità siciliana (in attesa dello spacchettamento dell’assessorato promesso dai centristi): ossia il commissario del comune di Termini Imerese, Antonio Lo Presti, in precedenza molto vicino all’area del presidente Musumeci.
Tutto si riduce alla politica. L’assessore all’Economia, Gaetano Armao, starebbe facendo pressione su Musumeci per portare alla guida del dipartimento delle Finanze e del credito (la dottoressa Benedetta Cannata è in uscita) Benedetto Mineo, uno dei burocrati più in auge ai tempi del governo Cuffaro. Mineo, che per un periodo era diventato manager di Equitalia, andrebbe a ricoprire un ruolo di grande responsabilità. Non sarà da meno il sostituto di Giovanni Bologna alla Ragioneria generale: il candidato più “papabile” è Ignazio Tozzo, uno dei dirigenti in ascesa della stagione Crocetta, poi approdato per qualche anno alla Corte dei Conti. Bologna, su cui Musumeci ha scelto di investire a occhi chiusi, è da poco transitato a interim al Dipartimento del Lavoro, per occuparsi delle pratiche della Cassa integrazione in deroga dopo le dimissioni (indotte) di Giovanni Vindigni, nominato da neanche un paio di mesi. Lo stesso Bologna ricopre ad interim il ruolo di capo dipartimento alla Funzione pubblica, dove avrebbe voluto trasferirsi in via definitiva. Ma ora potrebbe proseguire con successo la sua missione al servizio dell’assessore Antonio Scavone, che nel frattempo l’Ars ha pure pensato di sfiduciare per i ritardi sulla Cig (ieri la Regione ha completato l’esame delle pratiche).
Alla fine i grandi burocrati hanno una posizione di prestigio, guadagnano mediamente bene (sulle 80 mila euro l’anno), sono ancora un po’ carenti nei processi di semplificazione amministrativa, ma restano strumenti a disposizione della politica. L’addio di Vindigni è solo l’ultimo della lista. Prima di lui avevano salutato Salvatore Taormina, che era alla guida del dipartimento alla Formazione professionale, e Filippo Principato, che reggeva il Corpo Forestale. Quest’ultimo aveva da tempo percepito “la mancanza di fiducia da parte dei vertici istituzionali”. E s’è fatto da parte. La vacatio è stata già colmata da Calogero Foti, il capo regionale della Protezione civile, anch’egli ad interim. Vacilla pure la posizione di Rosolino Greco, dirigente generale del dipartimento alla Famiglia: ha dovuto fare i conti con la non semplice gestione dei cento milioni per l’assistenza alimentare, che la stragrande maggioranza dei cittadini siciliani non ha ancora visto.
Un altro nome tirato fuori nelle ultime ore, che ha messo in imbarazzo l’assessorato alla Salute, è quello dell’ingegner Mario La Rocca, che dirige il dipartimento della Pianificazione strategica, ma che la trasmissione Report ha scoperto essere collegato a un centro privato di Nefrologia e Dialisi, di proprietà della sua famiglia e convenzionato con l’Asp di Palermo. L’anno scorso ha preso 3 milioni da palazzo d’Orleans. Da La Rocca passano decisioni importanti anche in materia di sanità convenzionata, sebbene l’assessore Razza si è subito giustificato: “Il mio assessorato ha due dipartimenti e tutte le decisioni che sono assunte sulla materia che riguarda l’interesse in conflitto sono decise con decreto del presidente della Regione che ne affida la responsabilità all’altro direttore generale” (cioè Maria Letizia Di Liberti, che è a capo del dipartimento sulle Attività sanitarie).
E’ molto difficile individuare il confine tra l’opportunità e l’inopportunità politica. Così come è sconfinato il nucleo delle competenze e delle prerogative che un dirigente generale può assumere nell’arco del suo mandato: uno, Dario Cartabellotta, di recente ha richiamato al lavoro (sospendendo lo smart working) i dipendenti del dipartimento all’Agricoltura, ad eccezione di quelli immunodepressi e quelli con figli inferiori a 14 anni, che in questa fase non frequentano la scuola. Il manager si è attirato i rimbrotti dei sindacati che, in attesa della pubblicazione del decreto Rilancio (che estende fino al 31 giugno lo stato d’emergenza sanitaria), hanno fatto notare a Musumeci l’assenza di precauzioni e l’alto rischio di contagio.
Fra l’altro siamo in un momento assai critico in tema di nomine. Quelle di Antonio Candela come soggetto attuatore della task force anti-Covid e di Fabio Damiani come manager all’Asp 9 di Trapani, non si sono rivelate molto azzeccate. Persino all’interno della prima commissione all’Ars si è discusso di alcuni posti di sottogoverno: come quelli degli Iacp, Parchi e consorzi universitari, che il governo Musumeci ha comunque assegnato dopo una lunghissima anticamera. Ma le nomine, da destra e da sinistra – per i grillini è un’arte sperimentata a Roma – ci sono sempre state e continueranno ad esserci.
Sarebbe necessario, però, garantire il metodo e la trasparenza. A proposito di questo, più d’un dubbio sorge sulla natura stessa dei superburocrati che in Sicilia, a dispetto di quanto avviene in chiave nazionale, non sono dirigenti di prima e seconda fascia come esigerebbero la legge regionale n. 10 del 2000 e la n. 20 del 2003. Su 1.130 dirigenti presenti in organico al 1° gennaio 2020, appena quattro sono di seconda. Tutti gli altri sono di terza, ossia semplici “funzionari”. Nel corso dell’ultima sessione finanziaria, circolava a palazzo dei Normanni un emendamento alla Legge di Stabilità, noto col titolo di “Armonizzazione delle norme sulla dirigenza pubblica regionale”, il cui scopo era sanare le storture. Non c’entrava nulla con la natura della legge – sarebbe stato un emendamento aggiuntivo intollerabile alla luce dell’emergenza economica – e per questo è rimasto sotto vuoto. Fino alla prossima occasione.