La battuta più bella sul razzismo credo l’abbia detta Jean Genet, autore francese di pregevolissima drammaturgia, tra cui svetta appunto un lavoro dal titolo “I negri”. La battuta recita così: “Ma che cosa è poi un negro? E per prima cosa di che colore sono i negri?”.
Quanto è razzista il teatro che scrive di ebrei, negri e omosessuali? A scorrere la storia della drammaturgia di tutti i tempi sembrerebbe anche tanto. Ricordate il lamento dell’ebreo Shylock contro il cristiano Antonio: “Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? Non si nutre egli forse dello stesso cibo di cui si nutre un cristiano? Non viene ferito forse dalle stesse armi? Non è soggetto alle sue stesse malattie? Non è curato e guarito dagli stessi rimedi? E non è infine scaldato e raggelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate che un cristiano?…”. Si pensa comunemente che Shakespeare avesse inteso stigmatizzare i cristiani che se la prendevano con gli ebrei usurai. E, purtroppo, una lettura conformista ha fatto credere questo negli anni, nei secoli. Ma Shylock non era, agli occhi del Bardo di Stratford on-Avon, colpevole di ebraismo, ma semmai di usura e assenza di umanità, tanto da avere applicato una penale disumana: in caso di mancata restituzione del prestito, Antonio doveva consegnargli una libbra della propria carne. Non c’entrava proprio la condanna della ‘razza’, ma c’entrava tanto la messa in stato di accusa di un sistema mercantile e bancario dedito all’usura di cui Shylock era il modello quanto la sua brutale disumanità.
E Otello? Ricordate il Moro di Venezia, colpevole e omicida della bella Desdemona poiché accecato di gelosia malsanamente insufflata dall’ ‘honesto Jago’ fin dentro le viscere delle sue orecchie? Ma il gesto di Otello è quello di un ‘negro’, oppure quello di un debole egopompo alla mercé delle proprie insicurezze?
E potremmo sfidare il lettore a sfogliare pagine e pagine di testi teatrali per rintracciare l’accusa feroce – come la suprema salvezza – del personaggio simbolo ad uso della tesi del ‘razzismo di razza’. Rileggiamo la condanna di Bertold Brecht contro Madre Courage – ebrea – colpevole di sostituire alla necessaria umanità per la salvezza dei figli il valore primario e commerciale della moneta; rileggiamo il Molina de ‘Il bacio della donna ragno’ dell’argentino Manuel Puig, colpevole non di omossessualità, come Madre Courage e Shylock non erano colpevole di ebraismo, ma di infido collaborazionismo e uso perverso della pietà.
Insomma il razzismo a teatro non è mai per la razza, il colore della pelle o i gusti sessuali, ma per – passatemi il termine – l’igiene etica. Un’igiene prescritta dalla storia dell’umanità all’uomo contro la demente degenerazione verso il nulla e il cretinismo.
Ebbene, malgrado tutto ciò, ora è ufficiale: il teatro ha perso la sua battaglia contro la demenza dell’Umanità. Almeno per il momento questa battaglia è persa, non la sua guerra, certo, ma la sconfitta è cocente, bruciante, quasi senza rimedio. L’igiene etica era tutta rivolta ad un’allerta comportamentale per l’uomo al fine di porlo di fronte alla propria immagine riflessa sul palcoscenico: “guarda questo spettacolo e inorridisci!”. L’unica licenza per potere essere razzisti verso la degenerazione demente dell’uomo era ed è questa. Il codice della convivenza civile, che il teatro ha sempre guardato vigilato e salvaguardato come il custode degli dei salvaguardava il segreto della deità, aveva un primo livello di tenuta per sfuggire all’hobbesiano monito dell’ homo homini lupus. Agisci bene, contro il tuo egoismo e tutto andrà per il meglio. Invece il ‘cretino cognitivo’, forte di linguaggi e strumenti innovativi come le neuroscienze e l’informatica che soppiantano teatro letteratura e arte, ha avuto la meglio. Ha metabolizzato ogni possibile monito. Egli è il nuovo Shylock, la nuova Madre Courage il nuovo Molino o Tartuffe molieriano, senza peraltro avere di questi personaggi simbolo la sana cattiveria umana dell’istinto di sopravvivenza, e contro cui il teatro non ha al momento armi per contrastarne l’evoluzione. Il teatro parla all’anima dello spettatore in un momento in cui questo l’ha forse smarrita, mentre il cretino cognitivo non sopravvive, ma sottovive sul limine della propria necessaria imbecillità. E in tutto questo, sia detto a scanso di equivoci, ognuno di noi – compreso il sottoscritto – è a rischio di contagio.