Succede solo nelle canzoni di Edoardo Vianello. A Siracusa non ci credono che i Watussi ogni tre passi fanno sei metri, che guardano negli occhi le giraffe e agli elefanti parlano negli orecchi. E difficilmente crederanno che “non è un capello ma un crine di cavallo uscito dal paltò”.

Difficilmente crederanno che oggi il TAR, che sei mesi fa aveva rinviato ad oggi il “caso” del bar astronave nella piazza d’armi del castello Maniace, debba oggi ri-rinviare il “caso” del bar astronave (a suo tempo rinviato per far verificare se imbroglio c’era stato) perché non c’è notizia del verificatore che doveva verificare e che quindi non verificò e oggi siamo punto e daccapo col bar “teoricamente” sempre aperto e la verifica da fare e se prima ci volevano sei mesi anche ora forse ce ne vorranno altri sei e così alla fine sarà passato un anno in cavalleria. O forse no. Si saprà nei prossimi giorni.

Come dire che tu sei accusato d’essere un bracconiere che vende zanne d’elefante, e allora io-Tar ti dico che per ora puoi continuare a vendere le zanne. Però io incarico una elefantessa africana che se ne intende di dirmi se vendi zanne vere. Ma, mannaggia, l’elefantessa non si trova, non c’è, e quindi tu continui a vendere le zanne. Forse vere (ergo vietatissime) forse no.

E lo so che sembra la scenetta di Pasquale con Totò e Mario Castellani, il “sarchiapone” con Walter Chiari e Carlo Campanini, “un fiorino” con Benigni e Troisi, la sequenza di “Honolulu Baby” con Stanlio e Ollio nei “Figli del Deserto”, ma è la realtà grottesca, paradossale, casuale forse, ma esageratamente casuale per essere credibile, come a volte le causualità sono davvero. A volte. Raramente.

I fatti in sintesi per i non siracusani o gli smemorati volontari o involontari. L’estate scorsa il demanio concede per 12 anni la piazza d’armi antistante il Castello Maniace (maniero federiciano duecentesco sulla punta dell’isola di Ortigia, cuore di Siracusa) ad un privato perché vi realizzi una struttura rimuovibile per la ristorazione e allestisca spettacoli ed eventi. Il canone è risibile, il candidato solo uno che, quando si dice il caso, ottiene la concessione. La struttura viene realizzata e non pare molto rimuovibile in quanto si appalesa come un catafalco metallizzato ben ancorato a terra con una sella di cemento armato. Il tutto viene approvato dalla soprintendenza retta da Rosalba Panvini e dal Comune nella persona dell’allora vicesindaco Francesco Italia.

In quel tempo si svolgono le elezioni, Italia da vice viene promosso (dal popolo) sindaco. Italia Nostra (non sono parenti) denuncia pochi giorni dopo che è stato fatto un abuso, che il catafalco è irremovibile, che è stata privatizzata un’area pubblica. Si scatena una gran querelle politica. Gian Antonio Stella ci fa un paginone sul Corriere della Sera, Sgarbi si indigna. Sindaco e Soprintendenza indicono una conferenza stampa in cui rivendicano la piena correttezza e liceità di quanto fatto e stigmatizzano gli attacchi politici. L’affare si ingarbuglia giorno dopo giorno, sia giuridicamente che politicamente, con intrecci trasversali destra-sinistra sia pro che contro “l’astronave”. La buonanima dell’assessore Tusa, capita l’aria che tirava, “promuove e rimuove” anche per motivi di salute la Panvini (chiamata a più alti incarichi a Catania) e manda a Siracusa ad interim il soprintendente di Ragusa che accerta irregolarità e decreta il blocco dell’astronave e intima alla ditta di ripristinare lo stato dei luoghi.

L’impresa ricorre al Tar chiedendo la sospensiva del blocco, appellandosi al lavoro delle persone ingaggiate e alla continuità d’esercizio. Il Tar, “inaudita altera parte”, – e forse mai inaudita fu termine più azzeccato – blocca subito il provvedimento della soprintendenza-assessorato regionale e l’astronave si finisce la stagione estiva serenamente. Poi – entrando nel merito – in settembre decide di affidare una verifica a un verificatore scelto nella persona del Capo del Provveditorato delle opere pubbliche di Catania, dandogli 90 giorni di tempo per verificare e aggiornando l’udienza a sei mesi. Oggi cioè.

Ma oggi, cerca di qua e cerca di là, nei bagni, sotto i tavoli, dietro la lavagna, nello sgabuzzino delle scope, il verificatore non c’è. E nemmeno la verifica che tre mesi fa doveva aver consegnato. Ohibò mormora il presidente sei mesi dopo il primo ohibò. “Ma l’avete chiamato il verificatore? Gliel’avete detto che doveva verificare?” Chiede quindi il presidente accigliato anzichenò. I cancellieri si perprimono. “Pec gli mandammo” farfugliano. “E poi?” Insiste il presidente. E poi niente. Non rispose, non si sa. Forse. Comunque certamente non è un capello ma un crine di cavallo.

E insomma quella nomina sbadierata su tutti i giornali e tutti i siti, oggetto di dibattito, polemiche, corsi e ricorsi, quella nomina che tutti conoscevano e discutevano, proprio quella che doveva verificare… s’è persa. Niente. Del provveditore catanese nessuna traccia. Una cosa spiacevole, pensate al trauma di quell’uomo, illuso, invocato con tanto di sentenza pubblicata sui giornali e poi ignorato. Forse una Pec (di cui non c’è traccia nel fascicolo telematico del processo). Ma non accade nulla. Il verificatore resta abbandonato sul marciapiede dell’oblio. Magari si sente poco bene. Ma una telefonata no? Nessuno s’è chiesto ma la verificazione del verificatore che doveva arrivare come mai non arrivò. Siamo a livello di mobbing giudiziario. Un uomo dimenticato! Sono esperienze che segnano anche i più forti.

E quindi adesso che si fa? Si potrebbe rinominare il verificatore, rinviare di altri sei mei, così fra una cosa e l’altra l’astronave (che nel frattempo tutto l’inverno ha chiuso bar e piazza alla faccia dei turisti, della fruibilità dei luoghi e dei lavoratori) si potrà fare un’altra estate di mojito e spritz e spettacoli (“Se prima eravamo in due a ballare l’Hullu Gully…” Vianello aveva previsto tutto). Il Tar vedrà, deciderà.

Potrebbe dimettersi in massa con una “polemica di dignità” come direbbe De Andrè. Potrebbe licenziare i cancellieri che dovevano notificare e accertare e niente sanno. Potrebbe e forse dovrebbe far qualcosa perché altrimenti a Siracusa, forse anche a Catania, forse anche a Palermo si continuerà a pensare che è un capello non un crine di cavallo. Se poi tutto ciò accade oggi, quando si parla dei sostituti di Tusa all’assessorato e si fa il nome anche della Panvini, che Tusa promosse e rimosse e che difese l’astronave, appare difficile, difficilissimo, credere che tutto sia un caso, che non siamo nel continente nero alle falde del Kilimangiaro e che la giustizia amministrativa del Tar non sia altro che un paraponziponzipò.