Perché prendere un volo con scalo quando hai a disposizione un diretto che ti porta a destinazione comodamente? Potrei inventare mille cose, tipo preferisco Alitalia piuttosto che le low cost, ma la verità è che mi piacciono gli aeroporti, e che le due ore di attesa a Roma, o a Milano, mi procurano gioia. Di più: mi proiettano in una sorta di sospensione spazio/tempo regalandomi quella serenità che la realtà ci nega.
Aspetto il mio volo e guardo, giro, compro penne e quaderni, guide e carte geografiche, prendo un cappuccino o anche due, guardo la gente che sale sull’aereo per Mumbai e la immagino lì dopo dieci ore e penso sempre “chissà come sarà Mumbai”. Guardo la fila per New York e mi dico “ma sai che quasi quasi…”. Mi piace vedere le hostess in tailleur e impettite girare per il terminal, subisco il fascino della divisa del comandante che beve un caffè prima di mettersi ai comandi dell’aereo per Tokyo, mi chiedo sempre perché chi va a Milano da Roma, o a Roma da Milano, non prenda il treno.
Mi piacciono gli aeroporti che si svegliano lenti come lenti ci svegliamo noi, mi piacciono gli annunci per l’ultima chiamata e quell’italiano notarile da Istituto Luce – “i signori sono attesi al banco accettazione per il controllo documentale” -, mi piace vedere i ritardatari che corrono verso il volo sudati e carichi di roba. Mi piace il sole che entra nelle sale d’attesa ma amo gli aeroporti soprattutto di sera, quando sono illuminati e magari piove e sono un po’ tristi.
Mi piace stare davanti alle grandi vetrate e guardare gli aerei che vanno lenti verso la pista di rullaggio e si mettono in fila e mi piace vederli alzare in volo e lasciare la scia di fumo nero; a volte cronometro il tempo che intercorre fra un decollo e l’altro. Mi piace guardare gli aerei in avvicinamento che magari traballano perché c’è vento. Mi piace immaginare il lavoro frenetico della torre di controllo.
Ho amato moltissimo un film minore di Spielberg, The terminal, in cui il protagonista, a cui non danno il permesso di uscire dall’aeroporto, trascorre mesi interi a girovagare per il terminal, costruisce amicizie, impara una lingua, si innamora, insomma costruisce dentro a quel microcosmo una vita forse assai più appagante e vera di quella vissuta fino a quel momento.
Mi commuovono sempre gli abbracci fra chi arriva e chi aspetta, amo gli incroci, gli incastri studiati con pazienza. Qualche giorno fa un mio amico arrivava dall’Argentina e ha trovato il figlio ad aspettarlo. Li ho visti abbracciarsi con gioia e pudore, non si vedevano da mesi, “ciao papà com’è andato il tuo viaggio?”. Sono stati un’ora a parlare fitto, poi il volo per Palermo ha reclamato il mio amico. Ho immaginato quel pezzo di aeroporto come la stanza di un motel a ore, non c’erano due amanti su un letto ma un padre e un figlio che non si vedevano da tempo e avevano voglia di raccontarsi cose e di recuperare pezzi di vita perduta.
Ho conosciuto una volta un tassista, Isidoro, per quarant’anni ha accompagnato la gente in aeroporto ma non è mai salito su un aereo, “assurdo vero?”. Sì assurdo, gli risposi. Aveva paura di volare ma conosceva mille posti, dal Brasile al Canada, per averne sentito parlare dai suoi clienti. A suo modo, pensai, ha girato il mondo anche lui; pure quello in fondo è viaggiare.