“La riorganizzazione e lo snellimento della struttura amministrativa” prevista dall’accordo Stato-Regione, contempla la “riduzione significativa del personale dirigenziale e del comparto”, e si traduce – in pratica – nel divieto di nuove assunzioni. Il negoziato, accolto a denti stretti dalle parti, e contestato in maniera radicale dal presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché, è stato recepito da Palazzo d’Orleans con l’adozione di un piano di rientro allegato al Bilancio e alla Finanziaria. In cui le questioni attinenti al personale – 1.113 dirigenti e 12.577 dipendenti – rappresentano il capitolo più robusto. E anche il più vincolante, dal momento che la Sicilia, come le altre regioni, si trova di fronte a sfide nuove (come il Recovery Fund), e non sembra possedere le carte in regola per affrontarle.
Mancano i profili, le competenze, le abilità. Negli ultimi mesi, contestualmente alla pandemia, ce l’hanno dimostrato episodi specifici: ad esempio, l’esternalizzazione di alcuni servizi, come nel caso dell’istruttoria della cassa integrazione in deroga, o del click day per l’erogazione del Bonus Sicilia, che hanno fatto emergere – indirettamente ma non troppo – l’inefficienza dei nostri burocrati (il primo è stato affidato alla società ETT, il secondo a Tim: e hanno comunque fallito). O, ancora, la ricognizione delle risorse extraregionali “libere”, che bisognava re-impegnare nella famosa Finanziaria di guerra, i cui tempi d’attuazione si sono rivelati biblici.
Addirittura l’assessore all’Economia, Gaetano Armao, ha istituito una commissione ad hoc per comprendere i motivi delle lungaggini (al netto delle procedure innescate dalla presenza di fondi comunitari); e lo stesso Musumeci, nell’ultimo periodo, ha digrignato i denti di fronte ad alcuni scivoloni dei suoi funzionari. Non quelli dettati all’inesperienza digitale – che pure è evidente in una pubblica amministrazione brizzolata (59 anni d’età media) – bensì di fronte agli errori contabili di alcuni assessorati (Formazione professionale e Infrastrutture), che non hanno cancellato per tempo residui attivi per 319 milioni, dilatando i tempi d’approvazione del rendiconto e il giudizio di parifica della Corte dei Conti. Errori gravi – il riaccertamento dei residui non è un’attività così sporadica – che rischiano di avere un peso sulle scelte politiche ed economiche di questo governo.
Qualche giorno fa, nel corso di una puntata di Casa Minutella (la trasmissione di Blog Sicilia), l’acceso confronto fra il presidente dell’Ars Miccichè e l’ex dirigente all’Energia, Tuccio D’Urso, si è concluso col sollievo del primo per il pensionamento del secondo. Una situazione andata in porto il 6 agosto 2020, quando l’Ars, a scrutinio segreto, ha respinto una norma che prevedeva il “trattenimento in servizio retribuito” per i dirigenti prossimi alla quiescenza che ne facessero richiesta entro i 60 giorni dall’approvazione della legge. E che, comunque, avrebbero potuto approfittare della deroga per un massimo di tre anni, e non oltre il settantesimo anno d’età. Pareva – così, s’era detto – una norma costruita apposta per D’Urso, il dirigente anti-fannulloni molto apprezzato da Musumeci. Ma, secondo il diretto interessato, “era rivolta ai dirigenti più volenterosi e comunque impegnati nella rendicontazione della spesa comunitaria”. D’Urso, dopo aver accusato il parlamento di fancazzismo, e aver denunciato “trucchetti” nelle votazioni, è andato in pensione alla fine dell’anno. Non l’impianto normativo, che il governo ha riproposto in Finanziaria.
L’articolo 28 della Legge di Stabilità recita: “Mantenimento in servizio personale dirigenziale”. In poche righe emerge che, “al fine di assicurare continuità alle attività amministrative e tecniche e tecniche previste da programmi operativi, fondi strutturali ed altre fonti nazionali e comunitarie di finanziamento, il personale in servizio con incarichi dirigenziali nei relativi uffici può chiedere entro 30 giorni dalla entrata in vigore della presente legge, di essere autorizzato al trattenimento in servizio retribuito nelle mansioni per non più di due anni e non oltre il compimento del settantesimo anno di età”. E’ una norma valida per il 2021 e rivolta a una platea di 22 dirigenti – che quest’anno compiono 67 anni – di cui una soltanto una parte, però, si occupa di fondi strutturali.
A tanto s’è ridotta la Regione per dare continuità alla propria macchina (sfasciata). A una norma inserita che, fra l’altro, deve scontrarsi con alcuni dettami giuridici. Uno su tutti: il decreto legge n. 90/2014, meglio noto come “Riforma Madia” della pubblica amministrazione. Che, a partire dal 1° novembre 2014, ha provveduto all’eliminazione dell’istituto del “trattenimento in servizio dei dipendenti pubblici”, eliminando, di conseguenza, la possibilità per il lavoratore di chiedere di restare in servizio oltre il limite anagrafico per il pensionamento di vecchiaia. La legge in vigore prevede che al perfezionamento dei 66 anni e 7 mesi l’amministrazione pubblica deve obbligatoriamente collocare a riposo d’ufficio il dipendente. Con una sola eccezione: che egli non abbia raggiunto il requisito contributivo minimo per ottenere la pensione di vecchiaia. Per tutti gli altri casi – già validati da una sentenza della Corte Costituzionale e da alcune circolari del dipartimento nazionale alla Funzione pubblica – non c’è altra via d’uscita che il pensionamento. Ma la Sicilia, come spesso avviene, prova a fare di testa propria. Rischiando l’ennesima impugnativa.
Potremmo anche capirlo, d’altronde. Il percorso per riqualificare la burocrazia, dovendo rinunciare ad assumere, prevede di imboccare delle scorciatoie impervie. Col rischio di smarrirsi. L’assessore Marco Zambuto, a Buttanissima, non s’è dato per vinto. E ha spiegato che “la nostra sfida è allestire una macchina che sia il più efficiente possibile, seppur ridimensionata nei numeri. E’ vero, ci troviamo a far fronte a un accordo Stato-Regione che ci limita nelle capacità assunzionali per alcuni anni. Però stiamo creando le condizioni per superare questo ostacolo. Ci riusciremo attraverso i risparmi che realizzeremo con la fuoriuscita del personale e con un meccanismo complesso di redistribuzione delle competenze. Da un lato serve una nuova visione della macchina amministrativa, dall’altro guardare avanti per il recupero di energie e intelligenze”. Il personale che andrà in pensione non verrà rimpiazzato da nessuno. Ma gli uffici verranno smontati e rimodellati secondo le (nuove) esigenze.
Nel frattempo, per ottemperare alle richieste impossibili di Roma, Musumeci dovrà contraddire se stesso. E pigiare il tasto sulla pratica dello smart working, che in realtà detesta. “Ora vogliono stare ancora a casa per fare il lavoro agile – diceva pubblicamente il governatore, a luglio, con la frenata dell’epidemia –. Ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?” chiese, rivolgendosi ai dipendenti. Nel giro di poche settimane avrebbe implorato l’ex assessore Grasso di richiamarli in ufficio. Adesso, però, sarà costretto a fare marcia indietro. Dal momento che nell’accordo Stato-Regione, viene esplicitamente richiesto a palazzo d’Orleans “il recepimento della normativa statale e delle correlate direttive in materia di applicazione del lavoro agile al personale regionale”. La Regione, a partire dall’anno in corso, redigerà, sentite le organizzazioni sindacali, il piano organizzativo del lavoro agile (POLA), prevedendo, per le attività che possono essere svolte da remoto, che “almeno il 60% dei dipendenti possa avvalersene”. Questa rivoluzione copernicana – se il POLA non verrà sottoscritto, il 30% lavorerà comunque da casa – porterà anche a una riduzione di spesa di 300 mila euro annui per buoni pasto. Un modo per vedere il bicchiere mezzo pieno.
Ultimo capitolo controverso, posto anch’esso dal governo nazionale, si riferisce al recepimento della normativa in materia di dirigenza pubblica, con riferimento al superamento della terza fascia dirigenziale – creazione tutta siciliana – e “l’inquadramento nell’istituenda unica fascia dirigenziale, agli esiti di una procedura selettiva per esiti ed esami”. La Regione, nel piano di rientro approvato in giunta, ha fatto sapere che “è in corso di elaborazione un apposito disegno di legge finalizzato a ridisciplinare, a distanza di vent’anni dalla legge regionale 10 del 2000, l’ordinamento della dirigenza dell’amministrazione regionale siciliana, eliminando le criticità determinate dal mantenimento della cosiddetta terza fascia dirigenziale e allineando, al contempo, l’ordinamento della dirigenza a quella di tutti gli enti del comparto funzioni locali, attraverso la previsione di un’unica fascia dirigenziale”. Dai che forse ce la facciamo.