Il presidente bacchettatore

Il presidente della Regione, Nello Musumeci, ha subito in aula la batosta più sonora dell'intera legislatura

Musumeci ha ripreso a picconare. Durante l’ultima riunione in videoconferenza coi manager delle Asp, il presidente della Regione ha spinto sul tema della Usca, le unità speciali di continuità assistenziale, che dovrebbero occuparsi dei “positivi” nella fase di quarantena domiciliare: “Signori miei – è il virgolettato riportato da ‘La Sicilia’ – la situazione non è affatto migliorata. Anch’io, personalmente, continuo a ricevere decine e decine di segnalazioni di cittadini siciliani”, bloccati in casa in attesa del tampone “liberatorio”. Così ha incitato i direttori generali a scendere in campo personalmente, a prendere il controllo delle squadre operative che la stessa Regione avrebbe dovuto potenziare: a ottobre c’era un piano per la creazione di una Usca ogni 25 mila abitanti. Ma oggi quel numero è assai lontano, come suggerisce il report aggiornato dell’Iss – dove il tracciamento resta carenza più grave della Regione siciliana – e una riflessione, sul campo, di Giorgio Pasqua, capogruppo del Movimento 5 Stelle e componente della commissione Salute all’Ars: “Nel territorio di Siracusa, che conta 400 mila abitanti, ne funzionano quattro. Sulla carta dovevano attivarne otto”.

Di chi è la colpa se mancano i medici? Cosa ha fatto la Regione per dare manforte a queste squadre operative? In teoria, era stato promesso ai presidi di potenziare, su base provinciale, anche i gruppi di lavoro destinati al controllo della popolazione scolastica. Embè? Musumeci, come sempre, preferisce glissare. E’ assai più facile strigliare, rivolgere lo sguardo verso i “sottoposti” che lui stesso ha nominato. E non si è mai sognato di cacciare, nonostante le rivelazioni dell’ingegnere Mario La Rocca sui manager “incapaci”, che avrebbero fatto poco o nulla per caricare i posti-letto di Terapia intensiva sulla piattaforma Gecos. Tutti confermati al posto di comando, a sorbirsi le critiche del presidente che adesso chiede di riorganizzare il sistema delle unità speciali – ci sono 38 mila siciliani in isolamento domiciliare – quando avrebbe già dovuto farlo lui stesso, da mo’. La macchina, però, non si schioda dal parcheggio. Manca il conducente.

Non è la prima volta che il colonnello Nello alza la voce. Che sperimenta la cazziata come metodo di persuasione. Che prova a dettare legge senza accorgersi del ventre molle delle sue decisioni. L’esempio classico sono i regionali. Qualche settimana fa la giunta ha esitato una delibera sulla valutazione della performance 2019, in cui dichiarava che gli uffici della Regione hanno raggiunto oltre il 94% degli obiettivi prefissati a inizio anno. Ieri, in fondo a una lunga trattativa, è stato firmato con l’Aran (l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazione) l’accordo sul Ford, il fondo che garantisce straordinari e premi di rendimento nei confronti dei dipendenti. Gli stessi che Musumeci aveva redarguito più volte, prima e dopo il lockdown. Il budget, che vale 46 milioni di euro (27,2 per il raggiungimento della performance), sarà distribuito ai vari assessorati che decideranno, in base agli obiettivi raggiunti, come ripartirli. In più, la Regione ha deliberato un aumento degli straordinari – da 5,7 a 7,7 milioni – che ha lasciato di stucco pure le sigle sindacali: “Ci chiediamo come sia possibile assegnare due milioni in più per gli straordinari – ha scritto la Cisal in una nota – in un periodo in cui tutti sono stati in smart working”. La formula del lavoro agile non ha mai convinto Musumeci, che in estate non aveva perso occasione di fare polemica.

Durante un’assemblea di Diventerà Bellissima, il governatore aveva già lasciato il segno sulla pelle dura dei burocrati: “Se ne prendi uno e pensi di accompagnarlo alla porta – il riferimento è ai dipendenti regionali – ti trovi i sindacati pronti a difenderlo. Sindacati verso i quali abbiamo tutti rispetto, se la funzione fosse quella originaria, di difendere i diritti del lavoratore e non i diritti dei grattapancia a tradimento”. Il 18 luglio, alle Giornate dell’Energia (mica una festicciola di partito), rincara la dose: “L’80% dei dipendenti regionali si gratta la pancia dalla mattina alla sera. Ma non ditelo ai sindacati… Ora vogliono stare ancora a casa per fare il ‘lavoro agile’. Ma se non lavorate in ufficio, come pensate di essere controllati a casa?”. Qualche settimana dopo, “grazie al cielo”, la percentuale dei grattapancia scende dall’80 al 70%, ma il presidente che bacchetta i bacchettoni continua a parlare di gente “assolutamente inutile alle funzioni programmatiche della Regione”. Alla fine, però, arriva l’agognata promozione. Assieme alla promessa di riqualificazione del personale.

Nel mondo perfetto del governatore, però, troppe cose sono andate storte. All’inizio della legislatura, quando la maggioranza cominciò ad attorcigliarsi, Musumeci pubblicò un video, minacciando le dimissioni se alcune riforme (come la soppressione dell’Esa, oggi in mano a un suo fedelissimo) non si sarebbero completate. Ed ebbe da ridire sui alcuni alleati: “La più famelica partitocrazia che ha devastato e saccheggiato questa regione per tanti anni forse non è stata ancora sconfitta. In campagna elettorale avevo detto che saremmo stati il governo del cambiamento, non possiamo mantenere la stessa regione di 10, 20, 30 o 50 anni fa, una regione mangiasoldi, usata come un bancomat. Quell’impegno assunto con gli elettori, che mi hanno premiato nel novembre scorso, io lo voglio mantenere”. S’è visto. I carrozzoni, compreso l’Ente di sviluppo agricolo, sono tutti lì. Riscossione Sicilia è stata lautamente finanziata per evitare la liquidazione, Sicilia Digitale è una scatola vuota che non serve nemmeno a costruire un sito internet. E la gestione dei servizi è affidata a commesse esterne, mal ripagate. Come nel caso dell’Ett, che ha gestito da cani la lavorazione delle pratiche della cassa integrazione in deroga, o la stessa Tim, che non è riuscita a promuovere un click day per l’erogazione del Bonus Sicilia.

Il governo senza infissi lascia filtrare spifferi e polvere. Musumeci, chiaramente in difficoltà, reagisce di pancia. Come nel caso della Cig in deroga, quando tutta la colpa venne addossata su un dirigente al Lavoro di fresca nomina, Giovanni Vindigni, costretto a dimettersi, perché non c’erano abbastanza dipendenti in grado di smaltire le pratiche o un sistema informatico in grado di sveltire i processi. Mentre nel caso del click day, è iniziata un’indagine ispettiva per scoprire chi – fra il dipartimento alle Attività produttive (l’assessore Turano ha respinto questa ipotesi) e l’Arit, incaricato dell’innovazione tecnologica – abbia sbagliato mossa. Mai un riferimento a palazzo d’Orleans – carente sul tema dell’informatizzazione – mai un “mea culpa”. Come se la responsabilità oggettiva non esistesse. Come se i vertici della piramide fossero sempre intoccabili, e tutti gli altri da schifiare.

Lo hanno appreso sulla propria pelle politici, giudici e persino vescovi. “Non si chiedono perché la gente si allontana dalla Chiesa cattolica – disse Musumeci a un altro appuntamento di partito, nei giorni immediatamente successivi alla querelle sull’emergenza Lampedusa -: quando si cerca un sacerdote e le persone trovano un gregario di Zingaretti e Di Maio a fare le prediche, qualche cattolico manda a quel paese i preti e decide di pregare per conto suo”. Il presidente era furibondo per la posizione della Chiesa sui migranti. Tanto che il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, gli rispose a tono: “Dovremmo brandire Vangelo e rosario e fischiare il Papa, urlando contro i migranti, per non urtare la sensibilità di chi pensa a respingimenti, rifiuto di soccorso e non accoglienza?”. Le parole di Musumeci furono accompagnate da un solo gesto, plateale quanto inutile: la firma di un’ordinanza che prevedeva la chiusura dei porti e lo sgombero dei centri d’accoglienza. Né l’una né l’altra vennero legittimati dal Tar.

Ma la decisione di sospensiva assunta dal Tribunale amministrativo di fronte all’impugnativa di palazzo Chigi, fece credere a Musumeci di trovarsi di fronte a una sentenza già scritta. A causa del giudice che l’aveva pronunciata, Maria Cristina Quiligotti: “Qualcuno dice, ma è una “malalingua”, che è stato consulente del presidente Zingaretti che è il capo del partito più importante al Governo”. Un complotto, come la decisione di Speranza di decretare la zona arancione di fronte al tracciamento in tilt. Che ci riconduce dritti al punto di partenza. Presidente, com’era quella storia delle Usca?

Paolo Mandarà :Giovane siciliano di ampie speranze

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie