Rispetto a un anno fa, quando il ritorno alla vita pubblica culminò con un teatro sold-out a Palermo (dove presentò la lista della Dc a sostegno di Lagalla), e un’infinita scia di polemiche, oggi, a rimarcare la notorietà di Totò Cuffaro, ci ha pensato una storpiatura. Da “I have a dream” a “I am a drink” è un attimo. E la rete non perdona. Specie se i social, con un parallelismo sopraffino, decidono di porre sullo stesso piano l’ex governatore siciliano, che ha scontato cinque anni di carcere a Rebibbia, e uno dei massimi esponenti dei diritti umani, Martin Luther King, la cui citazione è stata completamente stravolta.
Nelle forche caudine di Facebook e Instagram, dove lo sfottò e l’indignazione non conoscono sosta, e gli inciampi non hanno filtri, Cuffaro è stato messo all’indice. La detonazione del suo video, rilanciato alla velocità della luce, ha raggiunto tutta Italia. Il nuovo segretario nazionale della DC, grazie a questa gaffe involontaria, ha fatto ritorno sulla scena politica. Ma sul serio. Più di quanto non gli abbia consentito la sfida a distanza con l’ex ministro Rotondi sull’utilizzo del simbolo della Democrazia Cristiana; e più di quanto gli abbia permesso l’ottimo risultato ottenuto alle Regionali in Sicilia, che ancor prima dell’estinzione della pena accessoria e della fine dell’incandidabilità, lo aveva riposizionato sul palcoscenico della cosa pubblica. Anche se un po’ defilato rispetto a prima.
Parlare di Cuffaro come un comune mortale è praticamente impossibile. Non sono bastate le citazioni dotte di Victor Hugo per ritagliarsi quell’angolo di normalità che l’uomo, prima del politico, avrebbe “preteso” dopo la scarcerazione; né l’aver fatto i conti con la propria coscienza più volte, scusandosi e pentendosi per gli scivoloni, di gran lunga peggiori di una frase sbagliata. Ma se c’è un limite al pregiudizio, quella è la politica. Intesa come esercizio di democrazia, come strategia sociale, come visione del mondo. Non è su quest’ultima che ci soffermeremo: Cuffaro, d’altronde, è il perseguitore di ideali quasi estinti sulla scheda elettorale (basti notare il richiamo imperterrito ai “liberi e forti” di Don Sturzo, retaggio del secolo scorso). A ognuno la propria ideologia. Ma ciò che non può passare inosservato, al netto delle preferenze o dell’eventuale biasimo, è la lungimiranza del percorso battuto.
In pochi mesi Cuffaro è riuscito: a ricreare dal nulla un partito che ha ottenuto tre consiglieri comunali a Palermo, quattro parlamentari all’Ars e due assessori al fianco di Schifani (grazie a un propizio 6,5% nelle urne) e a rimettere radici in quasi tutte le province siciliane; a farsi eleggere segretario nazionale di una DC suddivisa in mille rivoli, pur non potendo contare sul simbolo originario (lo scudocrociato è ancora dell’Udc) né sul patrimonio economico della Balena bianca. In questa operazione che prevede la (ri)costruzione di un soggetto politico nazionale, rientra l’investitura per Francesca Donato, nominata vicepresidente. E’ la stessa Donato che nel 2019, grazie al traino formidabile di Matteo Salvini, ottenne un seggio a Bruxelles con poco meno di 30 mila preferenze, e che dopo due anni si sganciò dalla Lega per visioni inconciliabili col resto del Carroccio. Oggi, nonostante i trascorsi no-Vax, le critiche, i veleni, è diventato l’attaccante di punta di una formazione che non ha alcuna voglia di mordere il freno.
Qualche giorno fa, mostrando doti diplomatiche superiori alla media (e anche a qualche nostalgico rancoroso che non vorrebbe cedergli lo scettro del ‘restauratore’), Cuffaro ha mandato la Donato al congresso di Noi Moderati, il mega contenitore di centro che costituisce da anni, e con alterne fortune, la quarta gamba del centrodestra, di cui fa parte l’amico Saverio Romano. “La Dc così come Noi Moderati ha un obiettivo: costruire un centro che prediliga la politica ragionata e di giustizia che sappia trovare un punto di equilibrio fra poli estremi opposti, rappresentando la volontà dei cittadini oggi privi di un vero riferimento politico – ha detto la Donato -. I due partiti, entrambi moderati e di ispirazione cristiana, non potranno che fare un percorso di strada comune per raggiungere obiettivi comuni”. Lo hanno già fatto a Catania, presentando una lista unica. Potrebbero farlo alle prossime Europee, anche se ottenere un seggio non è così automatico (è questo il motivo per cui si trova sempre riparo sotto il tetto più grande).
Cuffaro, però, è certamente il più astuto. Non dosa il misurino dei rancori, perché quello sciroppo è infinito e ci si perderebbe dentro. Ha sempre cercato di trovare una mediazione, persino di fronte a scelte complicate: ad esempio dover accettare la candidatura di Enrico Trantino, a Catania, nonostante la parola data a Valeria Sudano, compagna dell’amico Sammartino. Non è uno che eviterebbe gli inviti a cena per scansare il suo peggior nemico (cosa che è appena accaduta a Schifani: il presidente di Sicily by Car, Tommaso Dragotto, ha dovuto “requisire” l’invito a Gianfranco Micicché per un’inaugurazione, o sarebbero volati i calici). Anzi: da qualche tempo si è riavvicinato persino a Raffaele Lombardo, suo successore a Palazzo d’Orleans, che ha presenziato alla prima del docufilm ‘1768 giorni’, che tratta delle vicende giudiziarie e di vita del politico di Raffadali. E’ scattato persino un abbraccio dopo anni burrascosi.
Cuffaro, con tutte le storture annesse alla sua storia, ha saputo ricrearsi senza cancellare se stesso e i suoi peccati: coi viaggi in Burundi, con il sogno della DC, con l’espiazione pubblica e privata, con le soddisfazioni familiari (la figlia è da poco diventata magistrata). Ma soprattutto dando prova di non essere mai abbastanza vecchio o stanco per ricreare curiosità, dibattito e consenso attorno a sé. Mostrandosi più visionario di altri attori consumati della politica, nonostante la prova del governo non lo impegni direttamente. Dice che non si candiderà, sebbene qualcuno gliel’abbia già chiesto: “Totò, ripensaci. We have a dream”. Riuscirà a non cedere alla tentazione?