Il pendolo delle assunzioni

Da sinistra l'assessore Elena Pagana, il presidente Renato Schifani e il suo consulente prediletto, prof. Gaetano Armao

Il padre del precedente Accordo Stato-Regione, che ha ridotto la Sicilia ad attuare “cure da cavallo” (per sua stessa definizione), ha un nome e cognome: Gaetano Armao. Chi conserva buone dosi di fosforo, infatti, ricorderà che la versione precedente del patto, sottoscritto fra l’allora premier Giuseppe Conte e Nello Musumeci nel gennaio 2021, partiva dall’assunto che la Regione dovesse recuperare una quota di disavanzo superiore a un miliardo, e che per raggiungere l’obiettivo fosse necessario delineare con Roma un piano di rientro in dieci anni. Esso prevedeva, oltre alla riqualificazione della spesa e alla chiusura dei carrozzoni, pure il blocco delle assunzioni.

E’ un provvedimento che ci portiamo dietro fino a ieri, e forse fino a domani (il Pd vuole leggere le carte), e che deriva dalla cronica incapacità della Regione – talvolta malcelata da un pizzico di furbizia – di non tenere fede agli impegni, di approvare Bilanci e Finanziarie capestro, di restare al palo con le riforme. Il pesantissimo deficit accumulato nel tempo, legato a una controversa applicazione del decreto legislativo n.118 da parte del governo Crocetta, era emerso durante l’udienza di parifica della Corte dei Conti nel 2019, e si è evoluto con una serie di provvedimenti errati e/o superficiali. Un esempio per tutti: nel luglio di quest’anno la Corte Costituzionale ha bocciato le variazioni di bilancio proposte da Armao e approvate nel 2020 dall’Ars. Quelle che – in assenza di un definitivo Accordo Stato-Regione sulla spalmatura del disavanzo (subentrato appunto nel gennaio ’21) – sbloccavano la quota accantonata di 421 milioni per produrre nuova spesa. E’ il lascito di un assessore che, per interposta persona, aveva persino accettato di non approvare mai più esercizi provvisori, e che nei vari tentativi di ricucire col governo nazionale, non ebbe particolare fortuna.

Solo l’approvazione del “Salva Sicilia”, portata a termine lo scorso dicembre dal parlamento nazionale, aveva ricondotto dentro un quadro normativo nazionale la famosa rateizzazione decennale del disavanzo, provvedimento la Corte dei Conti aveva impugnato davanti alla Consulta. Il motivo? Quell’accordo, celebrato da tutti nel 2019, diventerà effettivo solo due anni dopo. Nel frattempo, però, la Regione targata Armao aveva ridotto gli accantonamenti anche negli esercizi ’19 e ’20. Sembrano tecnicismi, in realtà si rivelarono furbizie. La Sicilia aveva cominciato a spalmare il deficit su dieci anni ancor prima che una legge dello Stato lo permettesse, rischiando così di mettere a soqquadro i conti (per circa 866 milioni).

In attesa che le sentenze si aggiornino, era pacifico fin dal giorno zero che quel patto con lo Stato penalizzava una Regione che non assumeva da trent’anni. E che aveva la burocrazia più vecchia d’Italia: 57 anni di media. Lo lamentarono, durante la scorsa legislatura, sia il presidente della Regione Musumeci, che quello dell’Ars, Micciché. A chiedere un intervento allo Stato, per uscire da questa impasse atavica, è stato anche Schifani. Che, a inizio legislatura, durante le dichiarazioni programmatiche, non aveva lesinato critiche a chi, fino ad allora, aveva gestito i conti: “Nel corso degli ultimi anni sono state attivate varie interlocuzioni con i Governi nazionali per discutere delle diverse criticità finanziarie che ha dovuto affrontare annualmente la Regione e che hanno determinato il concreto rischio di non garantire le complessive esigenze di spesa e di pregiudicare l’adempimento dei compiti istituzionali”, disse il governatore.

Non puntò il dito contro nessuno, ma fece presente che “a fronte del riconoscimento di risorse aggiuntive” e agevolazioni sotto il profilo finanziario, la Regione avrebbe dovuto “assicurare una serie di misure volte a realizzare la riduzione strutturale e la riqualificazione della spesa corrente e l’incremento della spesa per investimenti, ad adottare provvedimenti di riorganizzazione e snellimento della struttura amministrativa, di razionalizzazione degli Enti e delle Società partecipate, misure di semplificazione e digitalizzazione, di recepimento di principi statali in materia di dirigenza pubblica”. Queste cose non si sono fatte (tranne la soppressione dell’Espi, da 24 anni in liquidazione). E non si sono nemmeno accennate.

L’unica cosa che ha fatto il nuovo governatore, per cancellare le malefatte del vecchio, è avanzare una richiesta a Giorgetti affinché rivisitasse alcuni vincoli a carico della Regione con l’obiettivo di riaprire la stagione dei concorsi. Un modo per cancellare le “cure da cavallo” imposte dai precedenti governi – quelli di Conte e di Draghi – durante il quinquennio di Armao assessore. Lo stesso Armao, che dopo il duello della campagna elettorale, ha richiamato al suo fianco (a 60 mila euro l’anno) per gestire le questioni e i fondi extraregionali; e successivamente per affidargli le chiavi del Cts, il Comitato tecnico scientifico che rilascia le autorizzazioni ambientali di competenza regionale. Amici e affiatati come due compari.

Ma torniamo all’Accordo e alla festa degli ultimi giorni. All’evento che rimette la Sicilia al passo con la storia e a posto con la coscienza. Che di fatto sradica la memoria della gestione Armao-Musumeci, nonostante alcuni assessori rimangono gli stessi di diciotto mesi fa (vedi Falcone, attuale responsabile dell’Economia). Che di fatto permetterà di assumere “fino a 750 nuovi dipendenti, colmando parzialmente i vuoti d’organico dovuti alle migliaia di pensionamenti degli ultimi anni”. Fra gli altri punti concordati fra Roma e Palermo, l’aumento di 70 milioni di euro degli accantonamenti annui della Regione previsti dal piano di rientro del disavanzo: in cambio il governo nazionale si impegna a concorrere progressivamente all’onere derivante dall’innalzamento della quota di compartecipazione della Sicilia alla spesa sanitaria dal 42,50 al 49,11 per cento. Significa più risorse aggiuntive da qui ai prossimi anni: a partire dai 300 milioni previsti per il 2023.

Sulla carta, anche se il Pd diffida, la Regione dovrebbe riappropriarsi dell’indirizzo politico e amministrativo, rimuovendo alcuni ostacoli che negli ultimi tempi le hanno reso la vita impossibile. “Proseguiremo – ha detto l’assessore Falcone – sul percorso di rigore contabile, ma al tempo stesso investendo sulla competitività della Regione grazie alle future campagne di concorsi che rimpolperanno uffici sempre più in sofferenza. Il tutto su basi di solidità finanziaria e ritrovata credibilità istituzionale”. Ri-trovata. Segno che prima qualcosa non andava. L’ex assessore all’Economia non sembrerebbe aver fatto un buon servizio alla Sicilia. Eppure è sempre lì, ad armeggiare denaro e potere. Come se nulla fosse.

Alberto Paternò :

Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie