Dopo un lungo corteggiamento Caterina Chinnici, che lunedì ha cominciato le presentazioni a Palermo, ha detto sì. L’europarlamentare, figlia del magistrato Rocco (ucciso dalla mafia nell’83), sarà la candidata del Partito Democratico alle prossime primarie per la presidenza della Regione, in programma il 23 luglio. Con tutto il rispetto per la donna di altissimo profilo – la Chinnici è stata direttore del Dipartimento per la giustizia minorile e tantissime altre cose – non se ne colgono le ragioni. Non si capisce perché, per l’ennesima volta, il Pd “ripieghi” su una papessa straniera, anziché su un candidato di bandiera. Perché, in occasioni di appuntamenti elettorali così importanti, scelga di nascondersi anziché apparire. Con la sua classe dirigente, con la sua storia e, magari, le sue fragilità.

A individuare la Chinnici è stata Area Dem, la corrente vicina al Ministro Dario Franceschini. Il via libera è arrivato da Francesco Boccia, responsabile enti locali. Con tutto il partito al seguito, che ha approvato (con un solo astenuto) la proposta formulata da Anthony Barbagallo nella sua relazione. Il segretario regionale ha spiegato che “abbiamo scelto una donna che ha spessore, conoscenza approfondita della macchina regionale, avendo ricoperto il ruolo di assessore, e una cultura giuridica che non è in discussione, essendo anche una magistrata”. Basterà per farla conoscere e piacere, oltre che alla borghesia siciliana, anche a sinistra? Dove già sono solleticati dall’idea di rifugiarsi nell’autorevole proposta di Claudio Fava?

La Chinnici, smessi i panni di magistrato in carriera, viene eletta per la prima volta a Bruxelles nel 2014, da capolista del Partito Democratico, con oltre 133 mila preferenze. Nel 2019 ne ottiene 113 mila e strappa il seggio per la seconda volta. Chapeau. La signora, però, non è mai stata al centro del dibattito siciliano negli ultimi dieci anni. Mai un commento sboccato, o un’azione incisiva, da quando si dimise dall’incarico di assessore regionale alla Funzione pubblica e alle Autonomie Locali, che le era stato affidato dal suo primo mentore politico: Raffaele Lombardo. Nel 2009 la Chinnici e il collega magistrato Massimo Russo, furono nominati in giunta come “tecnici”. Entrambi hanno un posto riservato nel cuore e negli affetti dell’ex governatore, che quando può li tira fuori: s’è detto e scritto che sarebbe pronto a sostenere l’amica Caterina in caso di vittoria alle primarie.

Ma al netto di questa esperienza, la Chinnici è relativamente nuova alle vicende sicule. Non risultano interazioni con il partito siciliano, o legami col Crocettismo, per citare una stagione da cui il Pd venne fuori martoriato. Sarà questo uno dei motivi per cui è stata scelta? O per cui la classe dirigente dem continua a nascondersi? Per il fatto di non riuscire a cancellare l’onta di una stagione di governo scadente sotto il profilo amministrativo ma soprattutto dell’immagine? Nessuno lo ammetterà mai. Eppure il sentore c’è. E non si riduce alla scelta di un’europarlamentare, prestigiosa finché si vuole. Ma a una serie di decisioni (monche) che hanno contraddistinto l’ultimo periodo del Pd siciliano, a cominciare da quella del candidato sindaco di Palermo: Franco Miceli.

Il presidente dell’Ordine nazionale degli Architetti, un agnello sacrificale sull’altare di Leoluca Orlando (un altro che del Partito Democratico si è servito a corrente alternata), è stato individuato in seguito a lunghe e articolate consultazioni con il Movimento 5 Stelle. I primi a proporlo, fra l’altro, erano stati due deputati grillini (Di Piazza e Varrica) a Giuseppe Conte. Poi giunse il Pd, con il segretario Enrico Letta, che non poteva non accodarsi su una scelta “civica”, “la migliore possibile”, che al tempo stesso riuscisse a garantire ampio respiro al progetto del campo largo e l’impunità ai dirigenti palermitani se le cose – come è puntualmente successo – fossero precipitate: tutti salvi.

E’ andata più o meno allo stesso modo con la scelta del candidato alla presidenza della Regione nel 2017, quando, chiusa la disastrosa esperienza Crocetta, il Pd si trovò a raccogliere i cocci di una gestione che l’aveva sfibrato e, a tratti, ridicolizzato. All’epoca non c’era alcuna alleanza col Movimento 5 Stelle. Così l’unico antidoto al bis di Crocetta, escluso in partenza, fu il ricorso al magnifico rettore dell’Università di Palermo: Fabrizio Micari. Un altro agnello sacrificale che non avrebbe mai visto il portone centrale di palazzo d’Orleans nemmeno in cartolina: arrivò terzo alle spalle di Cancelleri. Per un attimo si era pensato anche a un’altra candidatura di rappresentanza: quella dell’ex presidente del Senato Pietro Grasso, che svanì sul più bello.

Ma anche la scelta di Crocetta, nel 2012, è stata figlia di una svolta emozionale. Non legata alle capacità e alle competenze del politico, ma vincolata a ciò che Crocetta voleva rappresentare: l’avamposto della legalità e dell’antimafia (con scorta al seguito), l’eroe della città de-racketizzata (Gela), il sindaco dei diritti civili. Tutto questo ha prodotto una vittoria nelle urne, ma cinque anni impietosi sotto il profilo dell’amministrazione e della morale pubblica. Con la creazione di un governo parallelo che “per anni ha occupato militarmente le istituzioni regionali”, come disse nella sua relazione la commissione Antimafia di Claudio Fava. E come ha confermato il tribunale di Caltanissetta con la sua sentenza di primo grado su Montante e sul “cerchio magico”.

Il Pd non si è mai ripreso fino in fondo da quella stagione. Altrimenti non farebbe tutta ‘sta fatica a decidere da chi farsi rappresentare. Solo Anthony Barbagallo, del vecchio quadro dirigente, è riuscito a farsi largo alle ultime primarie e diventare segretario (dopo la baraonda tra Davide Faraone e Teresa Piccione che aveva portato all’annullamento delle precedenti consultazioni). Per il resto, ogni decisione rischia di finire annacquata nella paura e nel qualunquismo. Tra Bartolo e la Chinnici. Due che in Sicilia mettono piede solo per partecipare ai convegni, e mai per un comizio. Mentre gli esponenti storici, quelli che hanno accumulato militanza ed esperienza parlamentare, e che non si tirano mai indietro quando c’è da organizzare un dibattito o una tavola rotonda, se ne rimangono in disparte. Per pudore? Per vergogna? Per istinto di sopravvivenza? Di sicuro le conseguenze sono due: non creare nuova classe dirigente e mantenere in auge sempre la stessa. “Anche stavolta perderemo. Allegramente, ma perderemo”, è la voce che corre.