Prima di passare al Mes, che ha provato l’ennesima scissione dei Cinque Stelle (con l’addio, fra gli altri, dell’alcamese Ignazio Corrao) vale la pena soffermarsi sul Reddito di cittadinanza. Ossia l’altro microcosmo in crisi dei grillini. Basti pensare che il cavallo di mille battaglie, il primo atto del Movimento “di governo”, oggi è stato sconfessato da due dei suoi tre artefici: cioè Luigi Di Maio, ex capo politico del M5s e Ministro dello Sviluppo economico, oggi alla Farnesina; e Pasquale Tridico, suo ex consigliere politico, ma, soprattutto, attuale presidente dell’Inps. Il terzo demiurgo di questo sussidio “salvifico” e in parte salviniano (dato che è entrato in vigore col governo gialloverde assieme a quota 100), finito troppo presto in mano a spacciatori e assassini, è invece Nunzia Catalfo, l’attuale Ministro del Lavoro, catanese, che ancora si batte per tenerlo in vita. Così com’è. Nonostante abbia aggiunto altra miseria (etica) a quella già esistente.
Del milione e trecentomila italiani che lo percepiscono, e che pertanto sarebbero tenuti a sottoscrivere un Patto per il Lavoro – cioè un impegno a rispondere a una chiamata di lavoro, ogni qual volta un Centro per l’Impiego gliela prospetti – al 31 ottobre lavorano soltanto in 192 mila. Circa il 14%. Poco più di 350 mila disoccupati (circa il 25%), durante quest’anno e mezzo di sperimentazione, hanno avuto un contratto. Non tutti sono riusciti a confermarlo. Numeri da far accapponare la pelle se si pensa che il Reddito minimo è stato presentato come un fantastico strumento di lotta alla povertà – e ci può anche stare – ma soprattutto è stato accostato al menu delle politiche attive del lavoro. Era stato proprio Tridico, durante la convention inaugurale con Lino Banfi, a dire che “attraverso il Reddito di Cittadinanza gli inattivi diventeranno attivi” e che il Rdc “agisce come una leva verso l’alto dei salari”.
Oggi però ha cambiato idea: “Io vedo il Reddito di cittadinanza come uno strumento di sostegno al reddito, di lotta alla povertà, piuttosto che di politiche attive”, ha detto in un’intervista a Radio 24. Di Maio neanche quello. In un intervento sul Foglio di qualche giorno fa, dopo la disponibilità a un “tagliando” paventata in estate assieme al premier Conte, ha osato sfidare le convenzioni sociali e, sostenendo l’opportunità di “ripensare alcuni meccanismi”, ha dichiarato che bisogna “separare nettamente gli strumenti di lotta alla povertà dai sostegni al reddito in mancanza di occupazione”. Affossando, di fatto, l’impalcatura su cui si regge l’intero cantiere. Un segno del grillismo che avanza. E che rischia di mettere a soqquadro un universo toccato nelle parti intime. Nei capisaldi di un pensiero sempre meno unico.
I portavoce, infatti, ormai da tempo litigano su tutto. Sin da quando, dopo le Politiche del 2018, si trovarono di fronte a un bivio: andare a governare con qualcuno (poco importa che fosse la Lega o il Pd), o rimanere in tribuna nonostante – in alcuni casi – avessero sfiorato il 50% dei consensi. L’ultimo atto è stato mettere fuori gioco Davide Casaleggio, figlio di uno dei due fondatori, Gianroberto, e detentore della piattaforma di partecipazione popolare Rousseau. Ma in mezzo ci sono tante dosi di malumore, equamente distribuiti tra “falchi” e “colombe”, che non accennano ad arrestarsi. “Gianroberto Casaleggio – ha scritto Corrao nel suo encomio, consegnato ai social – diceva che i partiti, prima di scomparire, proveranno a somigliare al M5s. Purtroppo è successo l’esatto contrario”.
La Sicilia ne è una dimostrazione plastica. Ma prima di mettere a nudo gli ingranaggi, un’ultima cosa sulla Catalfo. “Il Reddito? E’ una misura volta a garantire un reddito minimo – ha spiegato, a proposito delle reticenze di Di Maio – e a promuovere un empowerment (un potenziamento, ndr) finalizzato alla reinclusione lavorativa e sociale dei beneficiari (…) Non è quindi necessaria alcuna modifica in tal senso. E’ sicuramente importante, semmai, lavorare sul rafforzamento del sistema dei servizi territoriali, affinché il disegno del Rdc raggiunga pienamente gli obiettivi fissati”. Sarà. Tornando a questioni più isolane, Corrao è l’ultimo pezzetto di oltranzismo (ambientalista) che si è distrutto al vaglio del partito nuovo, dove “l’aria è irrespirabile” e “gli spazi di confronto del tutto azzerati”. E dove ognuno la pensa diversamente. Ma a differenza dei partiti normali – dove le opinioni sono tutte contestabili, ma si afferma una maggioranza – nel M5s si fatica ad accettare il “correntismo” come stile di vita e il compromesso come arma a doppio taglio. E’ più facile buttarla in caciara e fare le valigie. Ma non dimettersi (ieri la richiesta del M5s ai quattro fuoriusciti).
L’addio di polemico di Corrao nasce per l’ennesima giravolta sul Mes, il fondo salva-stati. Lo stesso tema su cui, in queste ore, si scorna Forza Italia. I Cinque Stelle sono stati fra i primi a demonizzarlo, ma poi, convinti da Di Maio e Crimi (il reggente zoppicante), hanno detto sì alla proposta di riforma che consentirà all’Italia di non porre veti sul Meccanismo di stabilità che riguarda tutta Europa. Tanto – ha spiegato Conte – sarà il Parlamento a decidere se utilizzarlo o meno. Non basta questa rassicurazione ai grillini, che sulle questioni di principio, spesso a corrente alternata, non transigono. Giovedì, infatti, contestualmente all’uscita dal partito di Corrao e altri tre, è arrivata una lettera da parte di un gruppo di deputati e senatori (70 parlamentari in tutto, tra cui Morra e Lezzi) che si esprimono per il “no” alla riforma, e promettono di votare contro la risoluzione. Con questi numeri, rischia di venire giù il governo. Una posizione legittimata da Grillo, che sul blog ha giudicato il Mes uno strumento “inadatto e inadeguato”, offrendo un alibi ai malpancisti.
Sono tanti gli episodi che si rincorrono, e che depongono a favore dell’instabilità. In Europa, nell’ultimo anno e mezzo, Corrao – dopo una battaglia elettorale vinta all’ultimo voto – si è scornato con l’ex Iena Dino Giarrusso. Fino a qualche giorno ha sostenuto la tesi dell’espulsione dopo la notizia che il giornalista, per la sua campagna elettorale, avrebbe utilizzato i fondi di alcune lobby (vietato dal regolamento), ottenendo cifre superiori a qualsiasi finanziamento “legittimo” (per le regole del M5s). Due dolci “evasioni” – Giarrusso ha spiegato di non aver fatto caso al tetto dei 3 mila euro – che secondo Corrao andavano punite. L’ex Iena non se l’è tenuta e l’altro ieri, a corredo di un post del parlamentare siciliano Giampiero Trizzino (di sostegno all’europarlamentare di Alcamo) è intervenuto a gamba tesa: “Giampiero, le chiacchiere sono belle – ha sentenziato Giarrusso –. I fatti invece sono che sempre chiesto a chi lascia il movimento di lasciare anche la poltrona. Questo dicevano Gianroberto, Beppe, e tutti noi. Vuoi suggerire al tuo amico di lasciare la poltrona, o le regole valgono per tutti tranne che per gli amici? Sarebbe imbarazzante rivelare al mondo che le regole e i princìpi anche nel Movimento valgono solo per alcuni e non per altri: è il contrario della democrazia e sono certo lo pensi anche tu”.
Altri parlamentari siciliani in rotta di collisione coi vertici del Movimento, nei mesi, si sono defilati. A partire dall’ex Ministro alla Salute, Giulia Grillo: “La mia esperienza con il Movimento 5 stelle è al capolinea – dichiarò ad agosto di quest’anno, aderendo al gruppo Misto alla Camera -. La verità è che sono molto stanca. Ripeto le stesse cose da mesi, ma vedo sempre delle resistenze al nostro interno che non permettono al Movimento di evolversi”. Lo stesso fece la collaboratrice di giustizia Piera Aiello, nostalgica di Casaleggio e in rotta di collisione con Bonafede: “Non nascondo l’amarezza per tutto il lavoro che ho fatto, non solo in questi due anni da deputato ma anche negli anni quale semplice testimone di giustizia, lavoro vanificato da persone che non si sono mai occupate di antimafia con la formazione adeguata. Dopo mesi di sedicenti confronti, di tutto il lavoro parlamentare non rimane nulla. È sempre il ministro a decidere tutto e sicuramente non in autonomia”. Mentre il senatore Mario Giarrusso è stato espulso per non aver restituito un bel tubo (al pari del goffo onorevole catanese Santi Cappellani, che ha fatto le valigie prima di essere cacciato).
Nell’Isola è toccata più o meno la stessa sorte al parlamentare regionale Sergio Tancredi, che però non è andato via da solo. Ha portato con sé alcuni colleghi “scissionisti”, ormai in rotta col partito dei “no a tutti i costi” dopo il blocco della legge sui rifiuti. Da questi cinque deputati, nostalgici della leadership di Cancelleri (finito a Roma, non senza polemiche per l’abbandono di un posto da “eletto”) è nata Attiva Sicilia, un progetto civico che guarda con interesse all’operato del governo (in particolare dell’assessore Ruggero Razza), ma che ha spezzato clamorosamente i fili col passato (pur dichiarando che le battaglie restano uguali, e parte degli stipendi verranno comunque restituiti). Nei giorni scorsi Tancredi ha persino puntato il dito su Di Maio, reo di non fare abbastanza per riportare i 18 pescatori a Mazara. Uno stillicidio in piena regola, che solitamente non dà vantaggi a chi resta – il M5s è precipitato ovunque, alle Amministrative e nei sondaggi – né a chi parte (se non ti chiami Pizzarotti). Le giravolte si pagano a caro prezzo. Ma occhio all’estinzione.