Tra gli 832 voti – un risultato tuttora insuperato – con i quali Sandro Pertini, l’8 luglio del 1978, venne eletto alla presidenza della Repubblica, c’era anche il mio.
Raccontare quel lontano evento del quale fui partecipe e cercare delle analogie, se ce ne sono, con quanto sta avvenendo ora per la scelta del successore di Mattarella, può avere qualche interesse.
Anche a quel tempo c’era una vasta maggioranza a sostegno del governo Andreotti, frutto di un difficile accordo realizzato da Moro e da Berlinguer – la solidarietà nazionale – con l’obiettivo di fronteggiare l’emergenza del terrorismo e la crisi economica.
Anche allora, come sta avvenendo in queste settimane, non risultò facile trovare un’intesa su un nome condiviso. I veti incrociati, e in particolare quello di Bettino Craxi, segretario del partito socialista, condiviso dai comunisti, su qualunque candidato di area democristiana, insieme alla necessità di tenere unita la maggioranza per molti aspetti anomala e che già mostrava parecchie crepe, rendevano difficile una soluzione largamente accettata. Quella vicenda si svolgeva, poi, con alcuni mesi di anticipo rispetto alla normale scadenza a causa delle dimissioni di Giovanni Leone, da molti mesi bersaglio di dure polemiche in particolare da parte dei Radicali e dell’Espresso che ritenevano di avere individuato nel presidente della Repubblica il cosiddetto “antilope Cobbler”, il nome in codice di chi avrebbe preso una grossa tangente per l’acquisto degli aerei Lockheed.
(Dopo molti anni Pannella e la Bonino si scuseranno con Leone, del tutto estraneo alla vicenda. Nella storia del nostro Paese gli scandali ci sono stati, e anche molto numerosi, e le macchine del fango sono sempre state in movimento).
Quando iniziarono le votazioni per il nuovo inquilino del Quirinale, erano inoltre passati pochi mesi dall’uccisione di Moro, dell’uomo che rappresentava il punto di equilibrio del sistema politico e la guida autorevole della Democrazia cristiana. Non approdarono a nulla quindici giorni di incontri frenetici dei gruppi, delle delegazioni dei partiti che, potrebbe essere interessante ricordarlo, avvenivano in sedi disadorne, cariche, tuttavia, di storia, di tradizioni, di passioni, di valori e di scontri di potere, sedi molto diverse dalla “residenza” con prati verdi, cani, gatti e, pesante caduta maschilista, donne eleganti, nella quale alcuni protagonisti sono ora convocati.
L’impasse fu superata quando Zaccagnini dichiarò la disponibilità del suo partito a votare un laico, anteponendo l’interesse generale, l’esigenza di salvaguardare il governo, al diritto del partito di maggioranza relativa di esprimere il nuovo presidente della Repubblica. A quel punto il gioco, condotto prevalentemente da Andreotti, si fece sottile ed intrigante. A poche ore dalla votazione finale, quando tutto ancora sembrava ingarbugliato, la Dc avanzò la candidatura di Pertini, socialista che, insieme a Nenni e a De Martino, era stato indicato da Craxi tra i candidati di bandiera e che, due giorni prima, avendo capito che il suo partito non si spendeva realmente per lui e che non c’erano le condizioni per una sua elezione, aveva rinunciato alla competizione. Pertini, con la sua storia di antifascista, i molti anni trascorsi agli arresti o al domicilio coatto durante il regime, il rigore con cui aveva testimoniato i propri valori fino a smentire la madre che aveva inviato a Mussolini una lettera di grazia, la figura di autentico patriota, molto diversa forse da quella che immagina Meloni, che le qualità di patriota trova, almeno finora, in Berlusconi, mise in difficoltà Craxi. Egli non aveva alcun interesse a portare Pertini al Quirinale per il timore, innanzitutto, che potesse favorire l’accordo tra la Dc e il Pci e togliere spazio al suo partito. Tuttavia il segretario socialista non poteva dire di no mentre tutti gli altri partiti, tranne i neofascisti, accettavano la proposta. Nell’assemblea dei grandi elettori democristiani, qualcuno pose il problema della “ingestibilità” di un uomo talmente spontaneo da essere spesso imprevedibile.
Fu ancora Andreotti ad immaginare un qualche freno alle possibili “intemperanze” di Pertini. Si sarebbe chiesto ad Antonio Maccanico, segretario generale della Camera dei deputati, grand commis dello Stato, di molto buon senso e di notevole prestigio, di passare, con il medesimo ruolo, alla presidenza della Repubblica.
Neppure Maccanico sarebbe riuscito sempre a parare le uscite di Pertini. Ma anche con quelle, con la sua spontaneità, finì per essere molto amato dalla gente, rappresentò al meglio l’unità nazionale, trasmise valori di coerenza, disinteresse e moralità che, ancora oggi, in un contesto molto diverso da quello del lontano 1978, dovrebbero essere prevalenti.
Dovrebbero risultare anteposti alle esigenze patrimoniali, alla volontà di un ricchissimo uomo d’affari e politico di lungo corso di aggiungere l’occupazione anche temporanea del vecchio palazzo dei Papi – nessun riferimento ad una antica storia, quando una ragazzina lo chiamava giusto “papi” -, sul Quirinale alle numerose ville di cui è proprietario.
Dovrebbero avere maggiore importanza del valore dei dipinti in dono ad alcuni grandi elettori, degli allettamenti rivolti a molti sbandati con l’aiuto di un telefonista d’eccezione, che rischia di far pensare all’interlocutore all’altro capo del filo di essere oggetto di una burla, di far pensare alla volontà di imporre la logica dei numeri, comunque conquistati.
In questo modo, a meno che, come è anche probabile, Lega e Fratelli d’Italia non abbiano bisogno ancora di qualche giorno per cancellare l’ipoteca posta su di loro molti anni fa dal leader di Forza Italia, scaricandolo definitivamente, si rinuncia a cercare, insieme alle altre forze politiche, una soluzione che consenta al governo di proseguire nella sua azione di contenimento della pandemia, di attuazione del PNRR e di rilancio dell’economia, si impedisce alla legislatura di arrivare al suo compimento e di dare alla comunità nazionale un riferimento alto e credibile.
Si rinuncia, infine, da parte del centrodestra, ad essere in pieno forza credibile per guidare il Paese.