Niente peana per Francesco Giambrone che lascia il Teatro Massimo di Palermo e va a fare il sovrintendente dell’Opera di Roma. Solo la felicità per un amico che intraprende un nuovo percorso e l’occasione per mettere in ordine alcuni ricordi. Perché quando il futuro ci viene incontro velocemente, come nel caso di un avvicendamento al vertice o di una nomina importante, è bene ricordare da dove si proviene e chi si è stati. Con Francesco la mia avventura al Teatro Massimo è cominciata il giorno di ferragosto di sette anni fa. In una Palermo deserta e torrida mi chiamò e mi disse: ci vediamo?
Ci vedemmo. Io allora mi occupavo di tutt’altro e avevo chiuso con Palermo. Lui mi chiese di dargli una mano con la comunicazione del teatro, soprattutto con i nuovi media. Accettai e andò bene. Del resto almeno in principio non era difficile: il teatro era all’anno zero su quei fronti e anche la creazione di un account social rappresentava una rivoluzione copernicana. Francesco è una persona che ha coraggio, ma la sua dote principale sta nel sapere dove trovarne un surplus quando serve: sa ascoltare anche in situazioni di caos, non decide mai per partito preso. È un leader abile e persino divertente in certi frangenti. Tutti (ri)conoscono i suoi meriti. Io mi permetto di mettere in fila poche cose, magari marginali nella visione classica di una fondazione lirico sinfonica, ma preziose per tutti quelli che hanno apprezzato il nostro lavoro in questi anni.
Perché se siamo riusciti a fare delle cose folli (“Siete pazzi!”, era la sua frase tipica accompagnata dall’immancabile risata), è soprattutto per merito suo e del suo buon gusto (e, allora, dell’estro sconfinato di Oscar Pizzo). Abbiamo fatto concerti con le navi, abbiamo fatto maratone Beatles, abbiamo fatto esperimenti di realtà aumentata con Google Art & Culture, abbiamo scalato montagne, abbiamo raccontato la mafia e i suoi misteri, abbiamo stupito il mondo con una webtv tirata su dal nulla, abbiamo portato il teatro nelle piazze, nei vicoli e dove non era mai arrivato (persino in una fattoria in mezzo alle galline), siamo finiti due volte sulla prima pagina del New York Times, abbiamo fatto dormire un centinaio di bambini di notte in teatro (sì, proprio così), abbiamo trasformato per un anno la Sala Grande in uno studio televisivo, abbiamo rivisto il concetto di gratuità, abbiamo messo al primo posto dei nostri pensieri i giovani e i deboli, soprattutto abbiamo combattuto contro tutte le diversità. Non sempre abbiamo vinto, ma sempre ce la siamo giocata: navigando controcorrente, barcamenandoci in inferiorità numerica, sfidando gli scettici per principio. Non era facile (e se lo fosse stato non ci saremmo divertiti). Spesso le idee più incredibili nascevano per caso, magari a cena o nella telefonata del mattino, insieme al caffè. O nel corso di tumultosi scambi di sms nel cuore della notte che finivano sempre per impraticabilità di campo: io tiratardi, lui mattiniero…
Il Teatro Massimo è un luogo di gente meravigliosa e di artisti di primo livello. Ma dentro, è inutile girarci intorno, c’è anche l’altra Palermo. Quella che percepisce il cambiamento come fumo negli occhi, quella che gode nel vedere un muro che si sbreccia perché gli ricorda le antiche care rovine di privilegi perduti. Ma è solo una piccolissima parte, seppur insidiosa e sempre pronta alla restaurazione. Ora si volta pagina e, come si dice in questi casi, il programma non prevede insuccessi. Non aggiungo altro per scaramanzia, rispetto dei ruoli e, ancora, amicizia.
Buon lavoro, Francesco caro.
tratto da gerypalazzotto.it