E’ passato poco più di un anno da quando Ignazio La Russa, nel ruolo di luogotenente di Giorgia Meloni per la Sicilia, propose a Silvio Berlusconi una rosa di nomi – forzisti – da cui pescare il “candidato di sintesi” per il dopo Musumeci. Di quella terna faceva parte Renato Schifani. Il preferito di Ignazio, che con la mossa del cavallo (di Troia) voleva assicurarsi due cose: una rivincita su Micciché e, soprattutto, la possibilità di “controllare” Palazzo d’Orleans con un uomo di fiducia (sebbene di un altro partito). A distanza di un anno il giochino s’è rotto e di vantaggi non se ne vedono: non tanto per La Russa, diventato nel frattempo presidente del Senato; quanto per Fratelli d’Italia.
Mentre Giorgia, a Roma, è una che fa e dice cose, che una volta azzecca e l’altra sbaglia (mostrando segni lampanti di vitalità), a Palermo l’encefalogramma è piatto. Schifani dice e si contraddice, si occupa di nomine e di equilibri. Ma l’azione di governo è un’altra cosa. Se un elettore di FdI chiedesse ai dirigenti del suo partito i risultati e i vantaggi ottenuti in dieci mesi di convivenza, gli consegnerebbero una pagina bianca. E, come compendio, una serie di manovre di disturbo che, soprattutto negli ultimi tempi, hanno finito per indispettire i patrioti. Fino al limite della pazienza (e della decenza).
Il feeling non è mai scattato. La pace, invece, ha retto finché ha potuto. Lo scandalo di Cannes e il (mancato) sacrificio dell’assessore al Turismo, Francesco Scarpinato, ha inaugurato una fase torva nella storia di questa legislatura. In cui Fratelli d’Italia – bene o male, come nel caso del Turismo – avrebbe voluto continuare a fare. Coi metodi e il linguaggio di sempre. E ha trovato in Schifani un rivale interno, ostinato, poco trasparente, che ha sbarrato ai meloniani la strada per il successo. E’ tutta una questione di muscoli e di potere: il partito, dopo aver “scippato” a Schifani le scelte poco gradite degli assessori-non-deputati (Scarpinato e Pagana) ha dovuto ingoiare tanti bocconi amari.
I suoi assessori, ad esempio, continuano ad essere figurine sacrificabili, quasi inutili: Scarpinato, dopo la staffetta con la Amata ai Beni culturali, non ha più alcuna facoltà. Ha esaurito i bonus. Il suo esercizio è limitato alle foto di rito (guai a scattarle col rivale Cateno De Luca: successe un putiferio) o a qualche iniziativa per promuovere un parco, un museo o il ritrovamento di un relitto. Guai andare oltre. Anche Elena Pagana, assegnata in maniera improvvida al Territorio e Ambiente, è stata “commissariata” con Gaetano Armao, divenuto presidente della Cts, cioè il comitato tecnico-scientifico che si occupa del rilascio delle autorizzazioni di competenza regionale in materia ambientale. Elvira Amata è sempre in missione per promuovere il cinema e le rassegne teatrali. L’unico che gode di una discreta autonomia è Alessandro Aricò, responsabile delle infrastrutture. Ma prima di una visita al cantiere, o di un post sui social, sempre meglio informare il presidente.
Che poi le foto non sono mancate. A mancare sono i margini di manovra. E’ la fiducia di Schifani: azzerata, nel gennaio scorso, dai fatti di Cannes (quando fu costretto al ritiro in autotutela dell’affidamento milionario alla Absolute Blue di Patrick Nassogne). Il governatore s’è messo di traverso su un altro contributo nei confronti di Rcs Sport, revocando un finanziamento di mezzo milione (altri mugugni patrioti) per la Palermo Sport Tourism Arena; e, pur asserendo di non averci fatto caso, ha soprasseduto sulla revoca dei contratti con gli albergatori e la cancellazione dei voucher relativi a SeeSicily, il programma fallimentare allestito da Manlio Messina in epoca Musumeci (quelli del Turismo, una volta giudicati bravi, sono diventati tutt’a un tratto scarsissimi).
Anche da parte dei balilla di vecchio stampo, come l’attuale vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, non c’è alcuna simpatia esplicita nei confronti di Schifani. Semmai un’antipatia di fondo, rivelata da alcuni scossoni tellurici. Sulle vicende del Covid, quando la delegazione siciliana al parlamento nazionale tuonò contro la Volo; sulle nomine nella Struttura commissariale per le acque reflue (“e i suoi sono forse scienziati”?); sulla Sac. Un argomento delicato, che sottende una questione ben più articolata dei venti giorni da incubo in cui è precipitato l’aeroporto di Catania. Riguarda le poltrone; il peso specifico di un partito rispetto a un altro; una rivalità fra istituzioni che non si era mai vista prima, nemmeno ai tempi in cui Musumeci era costretto a tenere a freno la lingua nei confronti del governo Conte.
Lo scontro ad alta quota col ministro Adolfo Urso resta una macchia indelebile e un punto di rottura: da un lato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, che pensa di denunciare la carenza strutturale e infrastrutturale del più importante scalo del Sud Italia; e dall’altro Schifani, che derubrica la discussione a “vicende localistiche” prive di senso. Quando in realtà il senso c’era: la scelta di fare da scudo alla Sac, per il presidente della Regione, era una scelta di campo ben precisa. Significava non voler cedere lo scettro dell’aeroporto ai rivali di Fratelli d’Italia, lasciandolo amministrare a qualcuno dei suoi (il deputato acese Nicola D’Agostino). Tutto era già stato confezionato, con l’indicazione dei tre commissari (Camera di Commercio, Irsap e Libero Consorzio di Siracusa) che avrebbero permesso al Cda di sopravvivere anche in presenza di sciagure. E niente, nemmeno una gestione indecente del traffico passeggeri e un incendio scaturito da una stampante malfunzionante, avrebbero fatto cambiare il corso delle cose. Così è, se vi pare.
Anche il sindaco di Catania, Enrico Trantino, e il Ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, hanno avuto da eccepire sulla gestione di Fontanarossa. Hanno reclamato, rispettivamente, le dimissioni del Consiglio d’amministrazione di Sac e il ricorso a un’unica società aeroportuale per gestire gli scali dell’Isola. Una sola, contro le sei attuali. Schifani ha preferito non entrare nel merito: ma i canali con questi due non sono floridi come un tempo. In campagna elettorale aveva promesso a Musumeci la continuità amministrativa: ma fin qui, l’unica continuità è rappresentata da Gaetano Armao, rientrato nella scuderia dei “vincitori” dopo una campagna elettorale da finti rivali e un misero 2 per cento travestito da renziano (la stessa cosa non è valsa per Cordaro, giudicato incompetente dopo la nomina a subcommissario per i depuratori).
I meloniani sono esclusi dai centri di potere (neppure il presidente dell’Ars Galvagno riesce nell’impresa di rendere centrale il parlamento). Sono esclusi dalle possibili alleanze future. Sono relegati a poche plance di comando – il turismo, vuoi o non vuoi, regge – e faticano a toccare palla. Nelle gerarchie del governatore viene prima Cuffaro, poi Salvini, infine Lombardo. E solo dopo Fratelli d’Italia. Anche sulla sanità – visto che a breve verranno nominati i 18 manager – il capogruppo patriota all’Ars, Giorgio Assenza, ha chiesto di valutare pesi e contrappesi, e soprattutto di non riaprire la contesa ai manager considerati “idonei” visto che la commissione giudicatrice ha stabilito chi erano i “maggiormente idonei”. Possibile che Schifani, anche questa volta, seguirà altre sirene. Facendo schiumare di rabbia un partito intero. Quanto potrai ancora abusare, Catilina, della pazienza nostra?