La sessione di Bilancio relativa al 2019 non è ancora finita (è in discussione all’Ars l’ultimo “collegato” privo, però, delle norme di spesa) che il Consiglio dei Ministri è già intervenuto tre volte per sbugiardare l’assessore all’Economia e il Parlamento tutto. Il percorso a ostacoli che porterà la Sicilia a un nuovo esercizio provvisorio – di Finanziaria 2020, ancora, neanche l’ombra – verrà sancito (probabilmente) dal giudizio di parifica che la Corte dei Conti rimanda da fine giugno e che farà emergere il reale disavanzo della Regione. Mentre l’ultima operazione-verità commissionata da Armao ai suoi uffici (ma ce ne sarà un’altra, affidata all’ex assessore di Caltagirone Massimo Giaconia), ha scovato un buco da 400 milioni che ha bloccato le spese residue e privato alcuni settori strategici, dai teatri alle associazioni antiracket, di contributi vitali.
Questa è storia. Ma sebbene resti del lavoro da fare, persino quello già fatto non va bene. I due esecutivi a guida Giuseppe Conte, seppur di cromatismo diverso, hanno stoppato alcune norme che la Sicilia aveva introdotto in barba a uno “sconfinamento” di competenze e, talvolta, a una piena disponibilità di risorse. A metà aprile di quest’anno, il governo gialloverde, con Giovanni Tria punta di diamante, ha impugnato ben sette articoli che facevano parte della Legga di Stabilità votata in febbraio dall’Ars. Si parlò, all’epoca, di impugnativa “soft”, nel senso che le norme a rischio bocciatura non furono considerate prioritarie da Armao e soci: Roma mise i paletti su un articolo che si occupava di controllo e protezione della fauna selvatica perché di “competenza statale”; sulla stabilizzazione del personale della sanità penitenziaria; e su una legge abrogativa di un’altra legge del (2016) relativa al taglio di 1,8 milioni dal fondo per la retribuzione dei dirigenti regionali.
Ma ci furono anche dei “no” più sonori. Ad esempio al transito del personale Asu all’assessorato ai Beni Culturali e a quello dei lavoratori precari degli enti in dissesto alla Resais, il “contenitore” della Regione che solitamente li accoglie tutti. Un provvedimento contro il quale il governo regionale ha ricorso alla Consulta e che pone in una condizione di scontento il bacino dei precari. Roma disse no perché “varie norme in materia di personale – si leggeva nella nota di Palazzo Chigi – invadono la materia dell’ordinamento civile e contrastano con i principi di coordinamento della finanza pubblica, nonché con il principio del pubblico concorso e del buon andamento della pubblica amministrazione”. Senza procedure concorsuali non si canta messa. Furono cestinate inoltre due norme – per un totale di sette – che si occupavano di concessioni demaniali: l’articolo 24 prevedeva una disciplina transitoria per il rilascio di nuove concessioni e procedure amministrative semplificate per quelle di breve durata; l’articolo 25, invece, conteneva agevolazioni per le strutture dedicate alla nautica da diporto e una riduzione dell’iva sui marina resort. Tutto rispedito al mittente.
La situazione, però, si aggrava a metà settembre. Mentre a Palermo emerge che l’assessorato all’Economia non ha mai avvertito il Parlamento della situazione drammatica dei conti, consentendo l’approvazione di alcune leggi di spesa – contenute nei “collegati” – senza la certezza di una copertura finanziaria, il Consiglio dei Ministri impugna cinque articoli del “collegato generale” approvato dall’Ars il 10 luglio. La nota più dolente è rappresentata dalla bocciatura dell’articolo 12, che avrebbe consentito alla Regione di “scongelare” 114 milioni dell’ultima Finanziaria (che altrimenti sarebbero diventati “tagli” drastici) da assegnare a trasporto pubblico, teatri, ex-Pip, consorzi di bonifica, diritto allo studio, talassemici e via discorrendo. Per il governo giallorosso la norma sarebbe incostituzionale dato che “tali risorse di fatto non trovano riscontro nel bilancio in quanto correlate alla previsione di minori quote annuali di disavanzo da recuperare deliberate in contrasto con la disciplina armonizzata” prevista dal decreto legislativo 118. Micciché, nella sua arringa in aula contro i silenzi del governo e di Armao, avverte che “l’eventuale accoglimento da parte della Corte costituzionale dell’impugnativa” del Consiglio dei Ministri, “determinerebbe un peggioramento del disavanzo pari a 64,4 milioni di euro”. L’aria di tempesta aleggia su Palazzo dei Normanni.
Tra le norme rigettate da Roma ce n’è una che riguarda i 250 milioni da erogare a Città Metropolitane e Liberi Consorzi per il pagamento di mutui già accesi e per interventi dedicati alla manutenzione di strade e scuole. E non ha ottenuto il via libera nemmeno il tentativo di riforma degli appalti, che deroga dalle norme nazionali. Roma contesta il meccanismo per l’abrogazione del massimo ribasso (“Competenza, questa, che spetta allo Stato”), ma anche il fatto che la disposizione, voluta dall’Ance e dalle imprese locali per contrastare i colossi del Nord, confliggerebbe con la normativa comunitaria vigente. Impugnato persino un articolo sulla dismissione del patrimonio sanitario.
L’ultima legnata, però, è di inizio ottobre, quando il governo Conte boccia l’articolo 7 del secondo “collegato”: è la norma con cui la Regione recepisce quota 100 per mandare in pensione i dipendenti con 62 anni d’età e 38 di contributi. Secondo l’Ars, non avrebbe comportato un solo centesimo di spesa aggiuntiva per il bilancio regionale, ma Palazzo Chigi, oltre a evidenziare i “maggiori oneri previdenziali per la finanza pubblica in termini di maggiore spesa pensionistica e per trattamenti di fine servizio”, ha ravvisato “la mancanza di una relazione tecnica e di dettaglio che indichi le ragioni di una invarianza di spesa”. Se davvero non spendi un euro – parafrasando – dicci come fai. La legge rimarrà inapplicata fino al giudizio della Consulta (tra circa un anno). Bocciata, inoltre, la norma che proroga le concessioni per le tratte del trasporto pubblico locale, in scadenza il prossimo 3 dicembre, perché in situazione di “palese contrasto con la vigente disciplina europea”. Si tratta di contratti che costano alla Regione siciliana 250 milioni l’anno e che, contrariamente a quanto imposto da norme statali e comunitarie, non sono state affidate con gare di evidenza pubblica. Non avrebbe alcuna copertura, inoltre, l’istituzione del Garante dei disabili (per 45 mila euro): stop anche a quello.
Man mano che viene giù dalla montagna, questa palla di neve si ingrossa e la sua corsa diventa inarrestabile. Rischiando di travolgere le sorti di un governo ballerino. Dieci mesi di sessione di bilancio non sono bastati ad Armao e Musumeci per sciogliere il nodo dei conti. E forse non basteranno altri dieci anni per dare allo Stato la possibilità di fidarsi della Sicilia. Pane per i denti di Giletti.