Una volta che il secondo libro è stato scritto, puoi immaginartene un terzo, un quarto e ovviamente, per logica conseguenza del business e del Dio Share – il genere letterario (giallo, diciamo così, ma per assoluta comodità, un giallo sui generis si dovrebbe dire piuttosto, un giallo senza le ruffianerie del giallo, senza macchiettismi antropsicosociologici); l’editore ormai navigatissimo in queste operazioni di traslazione cartotelevisiva; l’ambientazione, perché è improprio chiamarla location, che è sì la Sicilia ma qui non ci sono terrazze panoramiche e mari in cui immergersi con maschio sprezzo di buon mattino, oppure isulidde, cous-cous o archeologiche vestigia in cui specchiarsi narcisi à la maniere di un depliant della Pro Loco – se ne potrebbe tranquillamente cavare una bella serie per il piccolo schermo.
Ma il buon Giovà di Roberto Alajmo – protagonista meno di un anno fa di Non ci volevo venire e adesso de La strategia dell’opossum (Sellerio in entrambi i casi) sembra quasi voler sfuggire a un destino segnato. Poi, chissà. Magari, lui inconsapevole, non gli riuscirà il trucco messo in atto dal simpatico animaletto – l’opossum per l’appunto – quando il predatore lo ha adocchiato: quello di fingersi morto, lì, stecchito, immobile, sganciando anche un vago odore di imminente putrefazione, per non essere sbranato. Magari arriveranno quelli della televisione e gnam! Alla faccia di Giovà stesso, potrebbero papparselo e il metronotte senza alcuna qualità da Partanna Mondello potrebbe anche apparire agréable al popolo che ogni mattina che Dio manda in terra viene censito in teste e percentuali.
Perché Giovà non è un eroe né un antieroe, non un Montalbano né un La Manna per dirla tutta, è un pover’uomo che al massimo ispira compassione, cui la vita scivola addosso allo stesso modo in cui piove bene sugli impermeabili, come canta il poeta. È uno che non va incontro ai guai ma sono i guai stessi a farne la loro calamita naturale e lui vorrebbe lasciarli dove stanno e così come sono, i guai, nel caso non inficiassero troppo la sua vita senza aspettativa alcuna, la sua esistenza ciondolante che è già una fatica lo stesso ciondolare, quel suo tran-tran cameretta, soggiorno, Panda per andare a lasciare nottetempo pizzini d’avvenuta vigilanza ai cancelli delle villette. Al massimo una puntata al bar per la pizzetta. Un uomo suo malgrado in una geografia suo malgrado, quella di una borgata, Partanna, che non può impennacchiare i pennacchi del lido limitrofo, Mondello, che in quest’ultimo anzi è costretta a trovare una zeppa toponomastica per affrancarsi dalla sua omonimia con il paese di un’altra provincia, come se la doppia denominazione fosse un certificato di esistenza in vita. Quasi un non uomo per un quasi non luogo. Tiranneggiato da poteri forti anche questi patetici surrogati di ben altri poteri: l’anziano boss di quartiere allocato sul piccolo trono del suo bar, sfiatato come un vecchio leone asmatico ma pur sempre temibile per Giovà, e il matriarcato domestico (madre, sorella, zia prematuramente vedova, vicina di casa) a vessarlo, questo mai cresciuto ragazzo cinquantenne, e anche qui non è un caso l’altra figura maschile, un padre che, laddove non si volesse già morto, sia ancora vivo ma comunque alieno dalla realtà sulla sua sedia a rotelle post-ictus, afasico. Inabile come il figlio, come Giovà nelle sue due divise d’ordinanza, quella pubblica di guardia giurata, compresa fondina con una pistola che non sa usare, e quella familiare di canottiera (si presume a coste), mutande e tappine infradito.
Ora capirete bene che, al di là della piacevolissima lettura, dell’astuta tecnica narrativa che è sempre quella prosa piana che spinge lentamente la realtà verso il baratro del suo parossismo, della capacità di sbrogliare i nodi delle psicologie con moderato sadismo nei confronti dei personaggi (indulgenza emotiva mai concessa ruffianamente, anche per non abituare male il lettore), il personaggio di Alajmo è, senza voler forzar troppo, politico: è lo specchio dell’accidia, dell’inedia, della cinica noncuranza di una città intera e non solo di una borgata, di un quartiere, è il simbolo del non fare che è sempre meglio del fare perché il fare comporta altro fare, con le sue conseguenze, i suoi problemi, i suoi contraccolpi, le sue camurrie, è la filosofia della sopravvivenza tranquilla, del lasciar perdere piuttosto che seguitare. Giovà è come Palermo: quando sente che stanno per incuitarla, giù, tutto d’un colpo, si stinnìcchia, come l’opossum, fa della tanatosi un’arte, non ci sono e se ci sono non ci volevo venire, e se ci sono già murìvu. E il tanfo è magari quello della munnizza ma tanto basta perché i teorici del fare, gli irriducibili utopisti, gli appassionati di qualsiasi proposito desistano mestamente e si allontanino.