Stavolta il parlamento è “esploso” e s’è ribellato, consegnando a Nello Musumeci la delusione più cocente della legislatura. I 29 voti ottenuti nell’urna (segreta) dei grandi elettori per il Quirinale, sono la logica conseguenza di un rapporto consumato – quello fra il presidente e i gruppi della maggioranza (e dell’intera Assemblea) – che oggi è emerso in tutta la sua gravità.
Ventinove. Meno di Micciché e del grillino Di Paola; meno delle attese, anche le più pessimistiche; meno, soprattutto, di quelli a disposizione della maggioranza che sostiene l’esecutivo, uscita irrobustita dall’adesione degli ex grillini e degli ex renziani Tamajo e D’Agostino, federati con Forza Italia. Per il ‘governo dei prepotenti’ si è trattato di un segnale devastante; per Musumeci di una bocciatura senza appello. Il punto più basso della sua permanenza a palazzo d’Orleans, un’angoscia permanente che il diretto interessato vorrebbe prolungare di altri cinque anni. Eppure, poco dopo la chiusura delle operazioni di voto, Musumeci aveva deciso di fare un passo indietro. Dimettendosi e consegnando ai siciliani una crisi al buio. Solo per l’intervento provvidenziale di Micciché e della sua campanella, oltre che di alcuni assessori e fedelissimi in processione, è tornato in sé dopo aver sbollito la rabbia – e che rabbia – in una stanza di palazzo d’Orleans riservata al governo. Mentre i lavori, che sarebbero dovuti riprendere con le dichiarazioni del governatore, e con la votazione dell’esercizio provvisorio, sono abortiti in silenzio. Tutto si ridurrà a un azzeramento della giunta. Una figuraccia.
Che è anche il frutto di quattro anni di rapporti sconclusionati, quasi inesistenti col presidente dell’Ars e coi partiti della coalizione (guai a chiamarla maggioranza). Musumeci, anziché scendere a compromessi e rilanciare l’azione dal basso, s’è trincerato dietro lo scudo dei suoi colonnelli. Da Razza ad Armao, passando per Messina: quelli che non lo tradirebbero mai, nemmeno sotto tortura. Ma che non stati in grado di farlo ragionare, predisponendolo al dialogo anziché all’insulto. Alla logica piuttosto che all’impulso. Talvolta sono stati i primi ad aizzare la contesa. Come nel caso dell’assessore all’Economia che fino a ieri, con l’esercizio provvisorio in netto ritardo e in fase di discussione, ha preferito il sole di Dubai.
La partecipazione di Gaetano Armao all’Expo, che per un paio di giorni (domenica e lunedì) ha coinvolto le regioni all’interno del padiglione Italia, ha privato il parlamento siciliano della prima occasione di confronto con l’assessore all’Economia per l’approvazione della ‘manovrina’. Nulla di strano se non fosse che la Regione, dal primo gennaio, è con la spesa bloccata a causa dell’inconcludenza del governo, che solo alla vigilia di San Silvestro – e dopo aver deciso di rinviare la ‘vera’ Finanziaria alla primavera – aveva trasmesso i documenti all’Assemblea. Basterebbe quest’esempio, uno fra tanti, per far emergere una sensazione di disagio (assai ‘diffusa’ a palazzo dei Normanni) per il trattamento riservato dall’esecutivo ai parlamentari. La ‘missione’ di Armao, condivisa con altri assessori, è suonato come l’ennesimo schiaffo nei confronti dell’aula. Il sintomo di un rapporto mai decollato. Uno dei motivi per cui, ad esempio, non si sono mai concretizzate alcune riforme chiave, come quella sui rifiuti; o delle perdite di tempo, come nel caso delle ultime variazioni di Bilancio, che hanno richiesto mesi per l’approvazione.
L’assessore all’Economia, con un comportamento votato all’arroganza, ha finito per erigere un muro fra parlamento e governo. Allontanandoli sempre di più. Agli atti di Sala d’Ercole sono rimasti alcuni episodi non proprio edificanti: ad esempio, la questione sollevata – da maggioranza e opposizione – durante l’ultima Finanziaria. Quando Armao si incaponì per far votare l’articolo 8, relativo alla convenzione con la Banca Europea degli Investimenti, inserendo un milione e mezzo di spesa per la sua attivazione. Con un emendamento del Pd, il comma dell’articolo fu soppresso e il vicegovernatore lo utilizzò come pretesto per scagliarsi sui ‘detrattori’. Tra i quali, per la verità, compariva anche l’ex compagno di partito Totò Lentini, poi transitato negli Autonomisti (e comunque parte integrante della stessa maggioranza): “Non possiamo farci fottere 500 mila euro l’anno, è una vergogna”, urlò Lentini dal pulpito. Armao, piuttosto che sui franchi tiratori, scaricò la responsabilità sui soliti cattivoni di Pd e Cinque Stelle, oltre che sui giornali, colpevoli di aver posto delle domande sulla destinazione di quei fondi.
Non contento di aver deteriorato i rapporti coi deputati, Armao è tornato alla carica all’indomani dell’impugnativa di Roma su alcuni articoli della Finanziaria medesima. Tra i quali spiccava la norma sulla stabilizzazione degli Asu, che tutto il governo aveva salutato come la fine del precariato. “Alla fine – dissentì l’assessore – la legge di bilancio è passata indenne al vaglio e su quella di stabilità l’impugnativa riguarda una decina di norme, il 90 per cento di iniziativa parlamentare. Tutte le vestali che avevano detto che la manovra sarebbe saltata dovrebbero prenderne atto”. Parole che non piacquero a Marianna Caronia, oggi deputata della Lega: “Le parole dell’assessore, che tenta di scaricare sul parlamento regionale la responsabilità della bocciatura di alcune norme della Finanziaria, lasciano sconcertati. Forse Armao non sa che il presidente Musumeci, a proposito della norma sugli Asu, aveva giustamente parlato di “soluzione definitiva dopo 25 anni” attribuendo il merito del provvedimento alla collaborazione fra governo e parlamento?”. Una pugnalata sui cui sorvolare. Come si è sorvolato, d’altronde, sulla mancata promessa di non ripresentare – “mai più” – esercizi provvisori. E’ successo cinque volte in cinque anni. Coincidenze?
L’assessore, in attesa di passare all’incasso con l’ultimo ddl, se n’è volato a Dubai. Scatenando i mal di pancia dell’Assemblea. Che ancora non si spiega come i conti della Sicilia meritino una considerazione così bassa. Anche le frequenti impugnative romane sono passate un po’ troppo in cavalleria. Tanto che il massimo inquilino di palazzo dei Normanni, Gianfranco Micciché, c’è dovuto tornare sopra in apertura della seduta del 12 ottobre, parlando di “situazione mortificante” e ammonendo tutti, compreso il governo: “Le proposte di legge devono giungere in parlamento con le relazioni tecniche”. Anche il ritardo su alcune nomine (minori) di sottogoverno, rappresenta la cartina da tornasole di un confronto logoro. E di una fiducia ai minimi termini tra i partiti della maggioranza e l’esecutivo. A riproporre la questione, con vena polemica, è stato lo stesso Micciché durante il brindisi di fine anno con la stampa: “Il governo Musumeci – disse il presidente dell’Ars – non tratta minimamente nulla con l’Assemblea, che rappresenta l’insieme dei partiti che hanno eletto il presidente della Regione e che fanno opposizione. Se non comunichi al parlamento, agli alleati e agli oppositori è un problema di democrazia, non di rapporti tra me e Musumeci”.
Una dichiarazione che fa il paio con quella di novembre, all’indomani del convegno di Diventerà Bellissima alle Ciminiere di Catania, in cui il governatore (oltre a ricandidarsi) si era scagliato sul parlamento per la mancata adozione della legge sui rifiuti: “In un anno abbiamo preparato il ddl. Lo abbiamo presentato al parlamento, ma lì nessuno vuole discuterlo – disse Musumeci -. Rifiuti in Sicilia significa anche mafia, malaffare e corruzione, ma è su quel disegno di legge che qualcuno dell’allora opposizione ha chiesto il voto segreto. Noi abbiamo operato come dovevamo operare”. Anche stavolta, però, Micciché è intervenuto a gamba tesa: “Diciamo la verità sulla legge dei rifiuti: se è lì da tre anni è perché fa schifo, appena viene portata in aula è bocciata da tutti. Se Musumeci decide di continuare a presentare leggi che nessuno conosce e che non vengono apprezzate, non andrà da nessuna parte”. E ancora: “Se c’è una cosa che mi dispiace di Musumeci è questo continuo attacco al Parlamento. Se venisse più spesso si renderebbe conto che tutto quello che è passato è solo grazie a un Parlamento disponibile perché noi non abbiamo mai la maggioranza. Se non ci fosse un atteggiamento responsabile, opposizione compresa, non passerebbe niente”.
Va detta anche un’altra cosa. Negli ultimi mesi il presidente della Regione ha ricominciato a frequentare l’aula più di quanto non abbia fatto nei primi tre anni. Era partito a spron battuto, minacciando le dimissioni se i deputati non si fossero impegnati a razionalizzare i costi (e sopprimere l’Esa), ma sparì nel novembre 2019, dopo la bocciatura dell’articolo 1 della legge sui rifiuti, affossato dai franchi tiratori. Durante una celebra arringa, minacciò di ritirarsi sull’Aventino fino all’abolizione del voto segreto: “Onestà – disse sbraitando – è quando un deputato sa metterci la faccia. E non si nasconde dietro il voto segreto. Sia i deputati della coalizione che quelli della maggioranza hanno mostrato pavidità, cinismo e mancanza di coraggio. Adesso, fuori dal palazzo, chi dirà grazie per questo stop sulla legge dei rifiuti? Chi vuole bloccare questo disegno di legge?”.
Poiché il ‘voto segreto’ non fu mai abolito, Musumeci si vide costretto a tornare in aula (è anche un parlamentare, oltre che il presidente della Regione). Ma la Finanziaria 2020, la cosiddetta ‘manovra di guerra’, fu un’altra occasione per uno show celebre. Ossia gli insulti a Luca Sammartino, prima di Italia Viva, oggi leghista, per aver proposto il ‘voto segreto’ su un emendamento: “Lei dovrebbe vergognarsi – fu l’esordio, funesto, del governatore -. In un momento in cui tutta la comunità siciliana si aspetta chiarezza da questo parlamento, lei chiede di votare di nascosto. Si vergogni lei e chi asseconda la sua richiesta. Io abbandono l’aula, è un fatto etico al quale non posso assolutamente aderire. Mi auguro che di lei e di quelli come lei si occupino altri palazzi”. Sammartino era (e resta) indagato per corruzione elettorale. La condanna di tutti gli schieramenti fu unanime. I fili col parlamento tranciati in malo modo. Fino a un progressivo (ma infruttuoso) riavvicinamento.
Nel frattempo, non sono mancati gli attacchi a Micciché e Fava, i due ‘avversari’ più celebri, ma anche ai partiti d’opposizione. Il Pd è finito nel mirino per la sua contiguità col governo Crocetta (destinatario di messaggi cifrati per i suoi gusti sessuali). Mentre nel corso di un dibattito su questioni finanziarie, ebbe da ridire sul ruolo di tutti i parlamentari: “Spero che qualcuno dei deputati possa giustificare, davanti allo specchio e ai suoi figli, di aver percepito alla fine del mese 6.600 euro più 2.000 di rimborso per avere fatto il proprio dovere, anche stando all’opposizione”. Ora, però, Musumeci ha bisogno di ricostruire dei rapporti all’interno (almeno) della sua maggioranza. Così ha ringraziato i gruppi parlamentari nel discorso di fine anno. Ha invitato i partiti, da sempre ripugnati, a un vertice di centrodestra per stabilire un nuovo percorso di riforme. Si fa vedere in aula ogni tanto. Ma questa ‘conversione’ tardiva non è bastata a scongiurare l’agguato. Anzi, è stato l’assist decisivo. Il presidente è in caduta libera.