Dopo il lungo servizio di “Report” sulla trattativa Stato-mafia, passa ora in televisione, questa volta su Sky, un altro polpettone che cuce alcune verità ad evidenti falsi, con l’obiettivo di raccontare un pezzo importante e tragico della storia siciliana.
Il regista Aurelio Grimaldi, con il film “Il delitto Mattarella”, liberamente ispirandosi, come dovrebbe dirsi in questi casi, a quel tragico 6 gennaio del 1980, rilegge eventi e protagonisti in modo marcatamente fazioso e spesso lontano dalla realtà dei fatti.
È evidentemente fazioso il tentativo, più volte messo in atto anche da altri, di “scippare” Piersanti Mattarella alla storia, ai valori, alla cultura e ai programmi della Democrazia Cristiana dentro la quale militò con convinta adesione e nella quale portò il contributo della tradizione familiare, della fede religiosa, delle capacità amministrative e di una visione di governo ispirata ad assoluto rigore morale.
Del resto, quello di appropriarsi di personaggi della DC da morti, magari dopo averli duramente contestati in vita, è un vizio ricorrente della sinistra che è arrivata perfino ad erigere una statua a Moro, nella sua città di Maglie, mettendo sotto il braccio del leader democristiano, in bella evidenza, l’Unità, quotidiano comunista.
Nel film di Grimaldi si tenta di far risaltare una marcata diversità di Mattarella rispetto a tutti gli altri esponenti del suo partito, diversità che certamente con alcuni di loro esisteva ed era evidente, ed insieme una coincidenza di posizioni con i comunisti, un gioco che si svolge attraverso un’oleografia falsa e melensa che finisce involontariamente anche per sfigurare Pio La Torre, dipinto alla stregua di un dirigente “invasato” e di un implacabile controllore dell’operato del presidente della Regione.
Qui c’è la prima falsità storica: al momento dell’elezione di Mattarella, alla guida dei comunisti siciliani non c’era La Torre, c’era Achille Occhetto, il quale, con Rosario Nicoletti, segretario regionale della Democrazia Cristiana, da alcuni anni, tesseva la trama dei rapporti che portarono prima al governo guidato da Angelo Bonfiglio con l’astensione del PCI e poi a quello della “solidarietà autonomistica” di Mattarella con l’appoggio esplicito di quel partito. Esso, peraltro, a distanza di poco meno di un anno, tolse la fiducia alla giunta, “modificando unilateralmente- cito le parole dello stesso Mattarella- la maggioranza con la richiesta di una partecipazione al governo, una richiesta che, era noto, non poteva essere presa in considerazione dalla DC”.
Il comitato regionale dei comunisti, in sintonia con le scelte romane che avevano portato alla crisi del governo Andreotti, e di fronte al rifiuto democristiano di accettare una loro diretta partecipazione al governo, nel marzo del 1979, aveva deciso di rompere anche in Sicilia con Mattarella, dando inizio, scrisse Salvatore Butera, uno dei suoi più prestigiosi consulenti, ad “una opposizione molto violenta … i comunisti lo (Mattarella) lasciarono solo”, spezzando “quell’ampia solidarietà, quel possibile riferimento ai partiti particolarmente attenti… alla questione morale”.
Michelangelo Russo, uno dei massimi esponenti del PCI siciliano, accusò Mattarella di avere bloccato “i processi di rinnovamento perché non possiede i requisiti per mantenere aperte le prospettive di avanzamento dei rapporti di unità, non è in grado di affrontare i grandi temi quali la riforma del Mezzogiorno, lo sviluppo programmato dell’economia, la battaglia contro lo Stato”.
Anche la seconda giunta guidata sempre da Mattarella e formata essenzialmente dalla DC e dal Partito Socialista era in crisi, nel dicembre del 1979, per decisione di quest’ultimo partito.
Nei giorni precedenti il suo assassinio, egli, scrissero i giudici del Tribunale di Palermo, a conclusione del processo ai mandanti, “era in carica soltanto per l’ordinaria amministrazione a seguito delle dimissioni della giunta da lui presieduta provocate dal ritiro della fiducia da parte del Partito Socialista. In precedenza, invece, il governo regionale, pure presieduto dall’onorevole Mattarella, aveva goduto anche dell’appoggio esterno del Partito Comunista (cosiddetta politica di solidarietà nazionale o delle larghe intese). Era stato proprio il passaggio all’opposizione del partito comunista a determinarne la caduta”. Mattarella, nei giorni che precedettero la sua morte, era stato ancora una volta incaricato dalla Democrazia Cristiana di trovare una maggioranza per formare un suo terzo governo.
Come hanno fatto già altri, nel suo film, Grimaldi ignora del tutto questi passaggi, fa rivivere l’accordo tra il PCI e la DC ed attribuisce ad esponenti democristiani la responsabilità della crisi, tirando in ballo in particolare Rosario Nicoletti, pentito, così si fa apparire, di aver appoggiato Mattarella e, sulla spinta di pressioni mafiose, pronto a tradirlo.
Mentre esistono documenti e dichiarazioni con i quali prima i comunisti e poi i socialisti dichiararono la fine dell’esperienza delle due giunte, non c’è una sola presa di posizione, una prova evidente di ostilità da parte democristiana, non una denuncia, un cenno dell’esistenza di difficoltà interne al suo partito o provenienti segnatamente da Nicoletti. Se qualcosa del genere ci fosse stata, se al di là di riserve, di dissensi e della ostilità inevitabile di alcuni settori politici, con in testa Ciancimino, rispetto alle scelte e al rigore amministrativo del presidente della Regione, riserve e dissensi che vennero di volta in volta ricomposti nell’unità del partito attraverso una mediazione non facile di Nicoletti e attraverso la capacità dello stesso Mattarella di affrontare e superare gli ostacoli che si frapponevano sul suo cammino, se tutto questo fosse risultato non componibile e avesse portato alla caduta delle due giunte, i socialisti e i comunisti lo avrebbero utilizzato anche per togliersi di dosso la responsabilità delle crisi. Dopo l’assassinio nessuno richiamò mai responsabilità democristiane nella crisi delle due giunte.
Per ciò che riguarda l’allora segretario regionale democristiano Nicoletti, artefice e protagonista di una stagione di rinnovamento e di speranze, tragicamente interrotta il giorno dell’Epifania del 1980, l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel 1993, ad un quotidiano nazionale dichiarò che durante il governo “di coalizione che comprendeva PCI e DC” esisteva una “piena intesa di mio fratello con Rosario Nicoletti”.
Di quegli anni tratto ampiamente nel lavoro “La caduta” in questi giorni in libreria.
Nel film di Grimaldi, insieme a quest’ultimo, tutti i dirigenti democristiani vengono “costruiti” alla stregua di improbabili macchiette, di maschere ridicole nella loro inconsistenza storica e nella loro banalità stilistica. Essi risultano marionette senza vita, forse con l’eccezione di Ciancimino, privi anche delle qualità negative per essere visti come espressione della peggiore politica isolana.
Con un’altra falsità storica, il film attribuisce a Mario D’Acquisto, subentrato dopo Mattarella alla guida della Regione, una tremebonda acquiescienza alla vicenda delle scuole che dovevano essere costruite a Palermo e sulla quale era stata disposta dallo stesso Mattarella un’inchiesta che fece emergere l’interesse diretto di imprese mafiose, inchiesta che era stata certamente interpretata da taluni ambienti come un’indebita ingerenza negli affari palermitani. In realtà fu proprio la giunta presieduta da D’Acquisto a chiudere la vicenda, inducendo l’amministrazione comunale di Palermo a revocare le delibere con le quali venivano assegnati gli appalti per le scuole.
Tutti i protagonisti democristiani nel film parlano un dialetto volgare e sguaiato, a partire, da ex ministri, da parlamentari, fino a sindaci della città capoluogo, quasi ad indicare, oltre a responsabilità di natura morale, a volte anche vere, una sorta di antropologia che finisce per risultare non tanto espressione del male, quanto manifestazione di totale banalità.
L’italiano viene parlato da Mattarella e dai suoi familiari, anche qui con una volontà di stacco rispetto agli altri personaggi, finendo per raffigurare, con una melensa oleografia, un’improbabile famiglia borghese.
La macchietta più evidente è quella di Andreotti, un gobbetto impaurito e cadente, privo del tutto dei bagliori luciferini con i quali spesso è stato ritratto, dell’elegante cinismo con il quale ha governato per quasi cinquant’anni questo Paese, una rappresentazione che fa sorgere la domanda di come quel poveraccio possa essere stato per sette volte- due con il sostegno dei comunisti- presidente del Consiglio, come avesse potuto essere interlocutore rispettato di capi di Stato e di Papi, come fosse riuscito a realizzare una politica estera lungimirante e a rimanere, al di là delle posizioni cangianti, per tantissimi anni, interlocutore credibile della sinistra.
Dal film emerge che la procura di Palermo avrebbe provato la veridicità dell’incontro tra Andreotti e Riina, condito da un caloroso abbraccio e da un affettuoso bacio e che questo sarebbe stato provato dalle dichiarazioni di numerosi pentiti. Ci si dimentica poi in modo assolutamente disinvolto di aggiungere che la magistratura giudicante ha ritenuto non vere le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e mai avvenuto quell’incontro.
Il film di Grimaldi è, infine, “insaporito” da tutto ciò che spesso viene impastato in modo generico mescolando verità e falsità: la mafia, la banda della Magliana, Sindona, il terrorismo nero, Gladio e la politica corrotta.
Il “polpettone” è servito, alla faccia della Storia e in spregio all’arte dei fratelli Lumière.
(Calogero Pumilia è stato deputato della Democrazia Cristiana ed è autore del libro “La caduta”’ edito da Rubbettino e da pochi giorni in libreria)