“Muerte de un ciclista”, un film spagnolo degli anni Cinquanta e l’eterno fascismo italiano. La censura e il ridicolo.
Uno spettro si aggira per l’Italia, lo spettro del ritorno del fascismo. Nel frattempo che la guerra abbaia alle porte d’Europa.
A conferma della celeberrima affermazione di Marx per cui “La storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”, ci sono le grida degli influencer. Il fatto è che la categoria, fatta di uomini e donne dai più ritenuti al vertice della società attuale (tanto da farsi, ad esempio, perfino un selfie col capo dello Stato senza neppure sfilarsi gli occhiali da sole), nell’attuale vicenda politico-elettorale ha dimostrato di contare zero. Altro che uno vale uno.
In questo contesto l’Istituto Cervantes, che promuove l’insegnamento e la diffusione della lingua e della cultura di Spagna e dei paesi ispanoamericani, ha deciso di celebrare la seconda edizione del “Día del Cine Español” e di inaugurare le attività 2022-2023 con un film metafora della dittatura. Uno dei film più emblematici di come si riusciva a produrre controcorrente e soprattutto contro la censura, occhiutissima censura di regime, negli anni più duri del franchismo.
“Contra Franco vivíamos mejor”, per dirla con Manuel Vázquez Montalbán, lo scrittore spagnolo morto nel 2003, che su questa asserzione aprì a suo tempo un dibattito infinito in Spagna.
Al cinema Rouge et Noir di Palermo, alla presenza di Juan Carlos Reche Cala nuovo direttore del Cervantes, è stato proiettato il film “Muerte de un ciclista” di Juan Antonio Bardem, premio della Critica al Festival di Cannes nel 1955. Premio che decretò il successo internazionale del film, convertendolo nel simbolo dell’opposizione al regime del Caudillo, nel mentre che ne aumentava i problemi sul mercato interno spagnolo.
Ma tra i paradossi della censura ce n’è uno che tocca il cielo del ridicolo. Lo segnala lo studioso Juan Francisco Cerón Gómez, autore di saggi come: “El cine de Juan Antonio Bardem” e “Cien años de cine en Lorca”.
In “Muerte de un ciclista”, con una magnifica Lucia Bosè protagonista, per la prima volta un regista spagnolo guarda alla frattura della Guerra civile da una prospettiva non ortodossa, cioè non proprio dal punto di vista di chi ha vinto la guerra.
Bardem era già affermato. Nel 1952 aveva firmato la sceneggiatura di “Bienvenido, Mister Marshall!” (girato da Luis García Berlanga), un’interpretazione satirica del Piano Marshall, cioè dell’assistenzialismo Usa in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, in un momento in cui la Spagna era proprio fuori da qualsiasi dibattito o istanza europeista.
“Muerte de un ciclista” è uno dei primi esempi di coproduzione internazionale tra la Spagna di Franco e l’Italia di Cinecittà e dell’avanguardia neorealista nel mondo.
Il paradosso è che la lettura sociopolitica dell’opera passò quasi indenne dalle maglie della censura spagnola di regime che ebbe da ridire solo sulla “morale”. Ma fu giudicata imprudente, se non sovversiva, dalle autorità dell’Italia di allora, democratica e cristiana.
Secondo Cerón Gómez a segnalare i tagli furono soprattutto gli italiani. Proprio sulla narrazione della Guerra civile e delle sue implicazioni sociali. “Si uno de los objetivos de estas coproducciones con países democráticos era buscar una ampliación de los límites expresivos, en el caso de Muerte de un ciclista ocurrió todo lo contrario”, afferma Cerón Gómez. Come dire, quando la democrazia è già democratura.
Nel film Juan e María José, che hanno intrattenuto un’affettuosa amicizia prima della guerra civile, si incontrano di nuovo dopo parecchi anni e tornano ad amarsi. Ma ora, María José non è più libera e il loro amore diventa adulterio. Di ritorno da un incontro clandestino la coppia travolge un operaio che torna dal lavoro in bici. Decidono entrambi, ma soprattutto lei che è alla guida dell’auto, di non soccorrerlo. Di condannarlo a morte, pur di non fare scoprire la relazione che li lega. Ma il delitto avrà un suo terribile, salvifico castigo.
Sullo sfondo una Madrid divisa in due. Le élite rappresentate dai protagonisti e dal loro mondo di appagamento egocentrico. Almeno in superficie. Loro possono fare ciò che gli pare, immersi in un eterno chiacchiericcio da cocktail party. Purché siano salve le apparenze. Limite non oltrepassabile, pena la perdita dei privilegi.
Dall’altra parte spezzoni neorealistici sulla miseria assoluta de “los obreros” e sulle lotte degli studenti contro lo strapotere dei baroni nelle università. Lotte che ci furono davvero in Spagna prima del cosiddetto Maggio francese del ‘68 ma che sono quasi misconosciute fuori dal paese. Spezzoni di film resi tali proprio dai tagli della censura.
“Muerte de un ciclista” è del 1955, in bianco e nero e in spagnolo. Proiettato con sottotitoli in italiano in un cinema affollato e con tanti giovani. Per l’occasione non si segnala nessun influencer.