A trent’anni dalla prima vittoria alle Politiche e a quasi uno dalla morte, è lecito chiedersi quale sia l’eredità di Silvio Berlusconi. Nelle cose e negli uomini. Mentre la “sua” Forza Italia, seguendo i principi di ispirazione garantista – ignorate per un attimo l’arrivo della Chinnici e la gogna nei confronti del sindaco Decaro – ha strappato alla Meloni l’introduzione dei test psicoattitudinali per l’accesso in magistratura, il partito non è più riuscito a esprimere figure carismatiche che sappiano interpretare le sue battaglie con lo stesso tono. Gli azzurri sono cambiati da un pezzo, da quando cioè – col Cav. in vita – sono diventati subalterni prima a Salvini e poi alla Meloni. Hanno rischiato di scomparire e non hanno ancora scongiurato il pericolo, giacché di tanto in tanto si fa largo l’ipotesi di una nuova discesa in campo: del figlio Piersilvio.
Ma è un dato di fatto che l’ex premier e amato fondatore, scomparso a giugno dell’anno scorso, non sia riuscito ad “allevare” una classe dirigente in grado di camminare con le proprie gambe o di prestare la voce alla sua rivoluzione. Le grandi disamine sul “profondo cambiamento” impresso al sistema da FI, oggi, è un off topic. Perché di fatto Forza Italia non c’è più; è altro. Prendete la Sicilia: non c’è una sola iniziativa del partito, che pure governa la Regione, in grado di lasciare il segno. Schifani è un presidente che campa di “vorrei ma non posso”, di annunci in sospeso, di impegni a metà. Capace di dare al partito un’impronta dirigista, ma incapace di tenere unita una coalizione, uscita sgretolata dalla prova dell’aula.
Il governatore è a capo di truppe che non gli sono mai appartenute, a cui non ha dato mai nulla e da cui in cambio ha ricevuto obbedienza. La fine dell’era Micciché ha portato con sé una compagnia di ingrati, pronti ad approfittare del momento per saltare giù dall’autobus in corsa. E finire su un carro bello grande: quello del presidente della Regione, che è stato messo lì, a presidio di Palazzo d’Orleans, da una mossa astuta (ma fino a un certo punto) di Ignazio La Russa. Schifani non governa perché è stata Forza Italia a volerlo; ma perché è stata Fratelli d’Italia a individuarlo come il pezzo di ricambio più utile dopo aver rottamato Musumeci. E questo, di per sé, rappresenta e rappresenterà per tutti e cinque gli anni un punto di debolezza. Eppure nel partito c’è chi lo segue perché non può fare altro: ai pochi che avevano deciso, dopo la spaccatura di Forza Italia, di parteggiare per il vecchio leader in rovina, non è rimasto che adeguarsi ai tempi, correggere il tiro delle dichiarazioni e rigare dritto. Tradiranno ancora, se necessario.
Si tratta di assessori, deputati e pagnottisti. Tutti per uno e uno per tutti. Ma quell’uno non è Berlusconi. E’ un presidente che non ama far apparire gli altri, che soffre il metodo del confronto, che fatica a mandare giù le critiche. Per questo, all’interno del suo stesso partito, ha preferito crearsi un cuscinetto di protezione. Affidando le chiavi al suo ventriloquo, già commissario provinciale di Italia Viva a Palermo, nonché capo della sua segreteria particolare: Marcello Caruso. Professione fedelissimo. Ma poi ci sono gli altri, quelli che lo incensano e non lo mollano per un istante. Facendogli credere di essere il migliore. Ma che tuttavia sono rimasti impigliati nella rete e non perdono occasione per metterlo in imbarazzo.
Prendete Gaetano Armao, rivale pentito alle ultime elezioni: ha ottenuto l’incarico di super consulente, per 60 mila euro l’anno, per i fondi extraregionali (una specie di surrogato dell’assessore all’Economia Falcone); e poi, come se non bastasse, è stato nominato al vertice della Commissione Tecnico Specialistica che – fra le tante autorizzazioni di carattere ambientale – rilascia anche i pareri sui termovalorizzatori. E qui accade l’inverosimile: mentre Schifani si batte per due impianti pubblici, la Cts dà parere positivo al progetto di SI Energy, che a Catania vorrebbe realizzarne uno privato. Una brutta figura senza conseguenze. Schifani è paziente solo con chi sa di non poter sconfiggere.
Un altro che l’ha messo in evidente difficoltà è Andrea Peria, venuto fuori dallo squadrone di Micciché e passato sotto le insegne presidenziali alla vigilia dell’ultima campagna elettorale. Non è bastato il dubbio di una revoca dei finanziamenti alla Sinfonica (fino a un massimo di 11 milioni) per farlo desistere dall’incarico di sovrintendente, uno dei tanti che ha ricevuto in questi mesi. L’organizzatore dei festini, imprenditore del cinema e membro di Unioncamere, è anche presidente del Corecom. Un superuomo che, a dispetto, Nietzsche è un pivello. Gli viene contestato un vizio di legittimità – secondo una legge del 2012 “gli incarichi di sovrintendente degli enti teatrali finanziati dalla Regione” hanno carattere di “esclusività” e i relativi compensi sono “omnicomprensivi” – che rischia di mandare gambe all’aria l’orchestra del Politeama. Ma in giunta nessuno alza un dito.
Schifani non è un tipo da mea culpa. Fa il forte con i deboli (fece nero un dirigente e fece causa a un’impresa per aver tardato nella consegna dei lavori del Castello Utveggio, a Palermo), ma non si scompone di fronte alle opacità dell’assessorato al Turismo o alla posizione dominante della Sac, la società di gestione dell’aeroporto di Catania, che nessuno – nel suo staff e nel suo governo – ha avuto il coraggio di inimicarsi, o anche solo di contestare, all’indomani dell’incendio del luglio scorso, costato alla Sicilia un danno d’immagine dolorosissimo. Macché.
E’ questa Forza Italia in Sicilia. Un partito supino. Una compagnia di macchiette di cui il presidente non sembra aver voglia di liberarsi. Ma la cui inadeguatezza si riflette – tutta quanta – sul suo operato. Sul giudizio che i siciliani avranno di lui. L’assessore alla Salute, Giovanna Volo, in questi quindici mesi di governo, non ha dato alcuna soddisfazione. E’ stata, piuttosto, l’esecutore materiale della scelta dei diciotto manager della sanità, alcuni profondamente inadeguati. Grazie alla Volo e alla sua assenza di carisma continueranno ad esserci la Faraoni all’Asp di Palermo, Walter Messina al ‘Civico’ (nonostante i due commissariamenti a Villa Sofia) eccetera. E’ grazie alla gestione dell’assessore Volo se la sanità pubblica ha perso terreno e se persino i convenzionati intravedono il burrone.
Durante l’era di Schifani, inoltre, la Sicilia si è trasformata in un parcheggio per privilegiati: la prima a spuntarla, alle Politiche, è stata Marta Fascina, già compagna del Cav., che prima di essere eletta nel collegio di Marsala, c’era stata mezza volta da bambina (vero che l’hanno candidata per fare un favore a Berlusconi, ma almeno una volta avrebbero potuto pretendere che si staccasse da Arcore per farci un salto); poi sono venute Michela Brambilla, Stefania Craxi e infine Caterina Chinnici. Che siciliana lo è, per carità. Ma anche una ex del Pd, che alle ultime Regionali – dove si candidò come governatrice – chiese e ottenne l’esclusione di Peppino Lupo sulla base della ‘questione morale’ (Lupo è stato assolto di recente dall’accusa di corruzione). Chinnici è quella che ha tagliato la strada a Cuffaro, assieme a Tajani, perché guai a riabilitare (politicamente) un ex carcerato. Ed è pure quella che potrebbe drenare voti ai berlusconiani non sulla base dei meriti politici, o della militanza appassionata, bensì di una storia familiare – rispettabilissima – che non c’entra nulla con quella degli azzurri. A guardare questo quadro impietoso, forse qualcosa ha sbagliato pure Berlusconi.