Il dominio dell’ignoranza

Cronache di cruda ignoranza. A Torino marito e moglie rapiscono il figlio di sette anni dalla comunità alla quale era stato affidato dal Tribunale dei minori dichiarandosi “cittadini sovrani”, cioè esibendo l’adesione a una specie di movimento che non riconosce l’autorità dello Stato e le sue leggi: il loro mahatma è Andrea Castellani, blogger che si fa chiamare, senza che gli sfugga una risata, “Andrea nato Castellani nativo italico, essere umano, uomo libero e sovrano di origine veneta e umbra dall’Ufficio Operativo Esseri Umani“ e che sui social ha un seguito di qualche migliaio di persone.

Dall’altro capo dell’Italia, a Palermo, un gruppo di militanti di Forza Nuova decide di contestare il sindaco Leoluca Orlando che aveva elogiato per la loro operosità i commercianti cinesi: come luogo simbolo della protesta sceglie la Palazzina Cinese che però di cinese non ha nulla, dato che fu realizzata dall’architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia a partire dal 1799 su commissione di Ferdinando III di Sicilia. Dalla politica romana a quella internazionale, dal mondo del lavoro alla cosiddetta società civile, dalla cronaca al suo simulacro social c’è un solo vero potere forte, quello dell’ignoranza. E il web ne è al tempo stesso effetto e causa alimentando un circolo vizioso in cui nulla si crea e tutto si moltiplica.

Cronache. Esempi. È una storia antica che ha riverberi modernissimi. Già del 1800 la scrittrice inglese Mary Anne Evans, nota come George Eliot, constatava: “È un luogo comune che la conoscenza sia potere. Ma chi ha debitamente considerato ed esposto il potere dell’ignoranza? La conoscenza costruisce lentamente ciò che l’ignoranza demolisce in un’ora”. Un’ora due secoli fa. Oggi i tempi di distruzione sono molto più rapidi, bastano due clic ben assestati e il gioco è sfatto. Il più celebre accostamento tra internet e imbecillità rimane quello di Umberto Eco che pochi mesi prima di morire lanciò il suo anatema: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”.

La modernità di un problema antico sta tutta nel mezzo di reperimento delle informazioni, giacché se prima si potevano addurre le cause più diverse (geografiche, sociali, economiche) per giustificare il sonno della ragione, oggi anche l’utente che appartiene alle categorie meno privilegiate (geografiche, sociali, economiche) può abbeverarsi alla sacra fonte del web. “Evidentemente la memoria in alcuni giovani si è contratta in un eterno presente dove tutte le vacche sono nere”, spiegò Eco parlando di “una malattia generazionale”.

C’è un’ampia ricerca della Stanford University condotta su quasi 8.000 studenti americani che mette in luce la scarsissima capacità di valutare l’attendibilità delle informazioni reperite su internet. Il dato più allarmate riguarda l’80 per cento degli studenti di scuola media che non sa distinguere su un qualsiasi sito una pubblicità, segnalata come tale, da una notizia. Addirittura alcuni di loro hanno riferito di aver letto l’avviso che parlava di “contenuto sponsorizzato”, continuando a darle dignità di notizia attendibile: ergo, non sanno cosa vuol dire “contenuto sponsorizzato”.

Dagli Usa all’Italia. Nell’ultimo rapporto di “Save The Children” c’è più di un dato allarmante che riguarda i ragazzi del Sud d’Italia. Alla voce “povertà educativa” ci sono una serie di angoscianti indizi che raccontano le contraddizioni dei nativi digitali. Un dato che colpisce è quello che riguarda il 40,3 per cento dei minori siciliani tra gli 8 e i 17 anni che non usano internet. Tra questi ci sono quelli che non hanno possibilità di accesso alla rete ma ci sono pure quelli che, pur avendo un cellulare, non sono in grado di fare una ricerca: in pratica si rincoglioniscono di social e chat. Per capire quanto l’analfabetismo digitale pesi sul sistema educativo e sulle moderne ramificazioni sociali, basti pensare al proliferare delle fake news e soprattutto al drammatico impoverimento del linguaggio: si stima che un ginnasiale nel 1976 conoscesse 1.600 parole, oggi ci si ferma a non più di 500 (emoticons comprese, probabilmente).

La fine delle parole ha una certificazione, una sorta di bollo che indica anche il luogo in cui vanno a morire tipo salmoni, solo che qui siamo in assenza di riproduzione: Facebook.
Nel 2012 il ricercatore Michal Kosinski, i cui studi furono determinanti per utilizzare i big data in chiave elettorale e propagandistica sui social network, dimostrò che in base a una media di 68 “mi piace” di un utente su Facebook era possibile prevedere il suo colore della pelle (con un’approssimazione del 95 per cento), l’orientamento sessuale (88 per cento), se preferiva i repubblicani o i democratici (85 per cento). Affinando il modello si riusciva anche ad avere indicazioni sul quoziente intellettivo, sulla religione e sui vizi (alcol, sigarette), sull’uso di droghe, sullo stato civile dei genitori. Il risultato sconvolgente fu che con soli 10 “mi piace” la squadra di Kosinski riuscì a valutare un estraneo meglio della media dei suoi colleghi di lavoro; con 70 batté gli amici; con 150 i genitori; con 300 addirittura il compagno o la compagna.

Tutto ciò analizzando solo i “mi piace”, cioè il nuovo linguaggio di un popolo muto. Una lingua che dice moltissimo di tutti noi. Come dimostra lo scandalo Cambridge Analytica, la società che utilizzava in modo selvaggio questi modelli di ricerca e che aveva fatto del targeting psicologico un’arma determinante per la nuova propaganda, dalla Brexit alla campagna elettorale di Trump a quella di Marine Le Pen. Ora Cambridge Analytica è stata costretta a chiudere i battenti e

Facebook sta cercando di recuperare credibilità con decisioni dai grandi numeri: qualche giorno fa ha annunciato di aver eliminato 583 milioni di account falsi, 837 milioni di contenuti spam, 2 milioni di contenuti che incitano all’odio e quasi 2 milioni di contenuti che diffondono messaggi di propaganda terroristica.

Nell’era del dominio dell’ignoranza il rapporto causa-effetto è un’illusione. Ce lo insegna soprattutto la politica. Il dilagare di svarioni non ha alcuna eco sul sentimento collettivo di fiducia nei confronti dei moderni leader. Lo sappiamo bene noi in Italia dove si è passati dalle dosi omeopatiche di Antonio Di Pietro, un antesignano del linguaggio social (immaginate come hashtag il suo #checiazzecca), a quelle massicce del Movimento 5 stelle. Dal Pinochet dittatore del Venezuela (Luigi Di Maio) a Napoleone che combatté ad Auschwitz (Alessandro Di Battista), passando per la lobby dei malati di cancro (sempre Di Maio), le sirene che esistono davvero (Tatiana Basilio) e altre gaffes memorabili messe insieme dal sito americano Buzzfeed in una classifica degli orrori di cui non c’è da andare fieri.

Gli svarioni sono parenti stretti delle bugie poiché attecchiscono nello stesso terreno di coltura e incultura. C’è anche qui odore di modernità in un problema antico poiché, per scomodare Winston Churchill, “una bugia fa in tempo a compiere mezzo giro del mondo prima che la verità riesca a mettersi i pantaloni”. Ecco che quindi la rapidità di diffusione, in epoca di comunicazioni istantanee continuate e permanenti, garantisce audience e gran capacità di penetrazione.

Il New Scientist ha fatto una ricognizione sulle principali teorie complottiste che attecchiscono negli Usa: lo sbarco sulla Luna che non sarebbe mai avvenuto, il governo americano dietro gli attentati dell’11 settembre e il riscaldamento climatico che non sarebbe colpa dell’uomo. Secondo il settimanale “almeno metà degli statunitensi crede a una di queste teorie, ma per certi versi tutte le persone ne sono attratte”. E i motivi non sono solo psicologici. Secondo la politologa dell’Università del Minnesota Joanne Miller “il successo delle teorie del complotto è legato anche ad alcuni fattori politici: sia i conservatori che i progressisti tendono ad accettare quelle che mettono in cattiva luce l’avversario. E in generale le teorie del complotto riscuotono più successo nella parte politica in svantaggio”.

Durante il primo anno del nuovo corso di Donald Trump, il Washington Post ha calcolato che il presidente ha detto almeno 5 bugie al giorno. “Fatti alternativi. Bugie. Distorsioni. Esagerazioni. Mezze verità” ha scritto Chris Cillizza. “Trump, attraverso la sua retorica e la sua condotta, ha ridefinito il concetto di verità. La verità ora è negli occhi di chi guarda. Non c’è accordo sui fatti accaduti. Tutto è filtrato attraverso le lenti delle notizie false”. Siamo passati attraverso un velo di incantesimo che ci presentava internet come la bacchetta magica della democrazia. Quando in realtà bastava ascoltare le parole di una filosofa come Martha Nussbaum: “C’è una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio come un cancro. Una crisi destinata a essere, in prospettiva, molto dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione”.

La bestia dell’ignoranza si nutre di un paradosso talmente ingombrante da passare inosservato, come un muro circolare che si fa panorama, come il vicolo cieco che raffigura nel buio senza uscita l’assenza apparente di alternative (basterebbe tornare indietro). Pensiamo alla politica, ancora una volta. Oggi per onorevoli e affini mentire dovrebbe essere molto più complicato rispetto al passato perché il web è un archivio istantaneo e non è difficile trovare online riscontri, immagini da confrontare, documenti originali, parole di ieri da paragonare a quelle di oggi. Eppure non riusciamo a prendere al volo questo tram di verifica e coerenza.

La verità è che viviamo in un mondo di ignoranti dove la conoscenza è a portata di mano. Quest’epoca dove spesso chi sa non conta e chi conta non sa è un intreccio di pratiche sociali, tecnologie anarchiche ma per finta, e comportamenti prevalenti che lasciano in bilico il patrimonio di saperi del mondo civile e, purtroppo, le basi sociali della democrazia.

Nel 1983 negli Stati Uniti, dove tutto per assioma accade in anticipo, un alto dirigente della Cbs confessava: “Non mi interessa la cultura. Non mi interessano i valori sociali. Mi interessa una sola cosa: se la gente guarda o no il programma. Questa è per me la differenza tra il bene e il male”. Era l’inizio del riscatto dell’uomo comune sul terreno dei comportamenti antisociali, del premio al disvalore, del troll eroe solo perché disturba il conducente. Da lì il diluvio. Oggi le nostre timeline, le nostre serate in pizzeria, i nostri uffici sono intasati dall’assenza di obiettività: non è il delitto che fa discutere, ma la sua rappresentazione mediatica; non è l’emergenza sociale che desta allarme, ma chi la denuncia e come; non è quel che accade ad accendere la curiosità, ma il suo riflesso sulla telecamera dello smartphone.

L’altro giorno a Napoli quattro ragazze erano in visita al Palazzo Reale. Nella Sala del Trono c’è un trono su cui sedettero gli ultimi sovrani borbonici del Regno delle due Sicilie, realizzato nella prima metà dell’Ottocento e circondato da un baldacchino di velluto rosso. È un reperto che è stato oggetto di un restauro lungo due anni e che solo nell’aprile del 2017 è tornato al suo posto. Ebbene cosa vi aspettate che abbiano fatto quelle ragazze? Esattamente quello che fanno gli ignoranti con la conoscenza a portata di mano. Ignorarla. E oltrepassare tutte le barriere di protezione per farsi un selfie spaparanzate su quel pezzo di storia incalpestabile. Gonne e cosce al vento per uno scatto culturalmente controvento. Magra consolazione, l’ignoranza ha anche un’accezione tragicamente eterna che non inciampa sugli scalini virtuali di mastro Zuckerberg: maleducazione, arroganza, prepotenza sono ingredienti delle miserie umane che purtroppo esistono da molto prima dell’invenzione del narcisismo tecnologico.

Certo, oggi gli spunti di deragliamento sono pericolosamente infiniti. Probabilmente è una questione di training. Se si accetta che un aspirante premier annunci al Paese che sta scrivendo la storia prima ancora di scriverla – una via di mezzo tra un ossimoro e una panzana – ci si dovrà accontentare del fatto che se i social hanno accorciato le distanze, magari a tempo scaduto sarà il caso di ripristinarle.

Gery Palazzotto per Il Foglio :

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