Nella storia della Repubblica, non è mai accaduto che un governo si formasse con una procedura assolutamente conforme alla lettera del dettato costituzionale. Draghi ha avuto l’incarico da Mattarella per realizzare una sorta di unità nazionale in grado di fronteggiare le emergenze del Paese. Ha ascoltato pazientemente le delegazioni dei partiti, ha definito in autonomia il programma da proporre alle Camere per la fiducia ed ha scelto i ministri con un buon mix tra tecnici e politici, non rispettando altrettanto bene il rapporto di genere, sottraendosi alle consuete, defatiganti trattative con i leader delle diverse forze e ai veti incrociati e, comunque, dimostrando una notevole capacità di dosaggio e un’ottima conoscenza del famoso manuale Cencelli.
Dal 1946 non credo ci sia un precedente analogo. Neppure De Gasperi sfuggiva alla necessità di ricercare un’intesa con i partiti che lo sostenevano, sia per la scelta dei ministri, sia per la definizione del programma. Con riguardo alla costituzione materiale che si è via via realizzata, talora in contrasto con quella formale, mi viene da dire che il governo presieduto da Draghi è il primo a regime “commissariale” che richiama, naturalmente con enormi differenze, la dittatura romana, la nomina, cioè, da parte del Senato, di una persona incaricata di fronteggiare gravi situazioni di crisi.
A scanso di equivoci, va precisato che, ai tempi di Roma, la “dittatura” non aveva il significato negativo assunto nel tempo, quello cioè di un regime che attribuisce tutto il potere ad un singolo individuo. Si trattava di una “magistratura straordinaria” che per un tempo prestabilito sostituiva quella ordinaria e che, scrisse Machiavelli “fece bene e non danno alla repubblica romana”. Uno dei “dittatori”, Cincinnato, rimane nella storia come il prototipo positivo di personaggi che, nell’emergenza, mettevano prestigio e capacità al servizio delle istituzioni per la loro salvezza.
Il consenso che accompagna Draghi, la sua esperienza e il valore della squadra messa in campo, lasciano sperare che il governo “faccia bene e non danno”, che l’eterogeneità delle forze che lo sostengono non freni la sua iniziativa. Può darsi che questo sia solo un auspicio, una speranza che i fatti magari si incaricheranno di smentire e tuttavia il viatico con il quale parte l’esperienza dell’ex banchiere e l’appoggio internazionale che lo sostiene aprono qualche spiraglio all’ottimismo.
Lungo il percorso indicato da Mattarella, Draghi non ha incontrato ostacoli consistenti. Le difficoltà che investono la politica in generale, quelle nelle quali si era trovato il governo Conte nella fase finale della sua esperienza, l’incapacità di uscire dalla crisi dentro cui si era rimasti impigliati con l’improvvida ricerca dei “responsabili” e la gravità dei problemi che investono il Paese, hanno agevolato il suo percorso. L’unica sosta che, per due giorni, ha fermato il cammino, è stata quella imposta dal Movimento Cinque Stelle, che, con la più consistente presenza parlamentare, in questa legislatura, è essenziale per la nascita di qualunque esecutivo. Per riprendere il cammino si è dovuta attendere la celebrazione di un rito stanco e sempre più privo di significato, al quale i grillini ricorrono, quasi come riflesso condizionato, per ottenere dalla base la foglia di fico e con essa coprire le scelte compiute da leader che non hanno la forza e il carisma per farle valere. Il ricorso alla votazione sulla piattaforma Rousseau, la fumosa democrazia diretta, sono tuttora il sintomo della permanente fatica di trasformare il movimento da indistinto e contraddittorio contenitore di speranze, di illusioni, di velleitarismi e di buone volontà, in una realtà politica dotata di una cultura e di un programma omogenei e condivisi, fornita di metodi credibili ed efficaci per la selezione dei gruppi dirigenti nelle diverse istituzioni e guidata da organismi riconosciuti e stabili.
Sono problemi aperti da sempre e irrisolti anche dopo la convocazione di quelli che pretenziosamente e con un impreciso riferimento storico hanno voluto chiamare “stati generali” e resi evidenti dal potere ancora esercitato da attori privi di legittimazioni formali: da un lato il proprietario della piattaforma Rousseau e dall’altro, come un vero e proprio autocrate, il “garante”, “colui che garantisce – con un riferimento al codice – il mantenimento di un impegno da parte di altri”, i quali, ovviamente, per la loro età o per la scarsa affidabilità, non sono ritenuti credibili. Nei giorni scorsi, del resto, si è visto come molti parlamentari, in poche ore, siano passati dal no assoluto all’ex banchiere alla posizione opposta, quando il garante ha imposto la sua linea ed è ricorso al voto degli iscritti anche nella speranza di evitare un’ulteriore spaccatura. Il quesito come formulato è stato oggetto di diffusa ironia e mi ha ricordato quel vecchio parroco molto impegnato, oltre che nella cura delle anime, nell’attività politica in favore della Democrazia cristiana. Nel 1963, quando il Concilio Vaticano II aveva messo un freno allo sconfinamento degli ecclesiastici, nella predica domenicale del giorno delle elezioni, egli disse ai fedeli che si sarebbe astenuto dal dare precise indicazioni di voto, limitandosi a raccomandare, comunque, di scegliere un partito democratico e cristiano.
Malgrado la formulazione del quesito e malgrado quasi l’intero gruppo dirigente si sia dichiarato favorevole al sì, il risultato del voto ha palesato una spaccatura profonda e una permanente condizione di fragilità che sta portando ad una scissione della quale non si prevedono le dimensioni. Questa permanente incertezza può essere superata solo da una scelta di campo chiara tra destra e sinistra, tra cultura di governo e volontà di testimonianza, tra una struttura liquida e un’organizzazione che renda visibile il movimento nei territori e consacri in modo democratico i gruppi dirigenti. La frattura di questi giorni può agevolare il processo di crescita rafforzando, come dice Di Maio, la maturità, mentre la formazione di un gruppo che raccoglie i nostalgici della prima ora può intercettare il movimentismo e riprendere le parole d’ordine iniziali.
Il governo Draghi parte e a bordo non ci sono nessun siciliano e pochissimi meridionali. Una gran parte dei ministri è del Nord. Non ho mai attribuito molta importanza alle rappresentanze territoriali. Il numero dei governanti siciliani nel passato non è stato garanzia di particolare attenzione per i problemi della nostra terra, se pure un criterio che tenga conto anche di una distribuzione geografica non dovrebbe essere del tutto assente. Può darsi che il Mezzogiorno e la nostra regione, se pure scarsamente rappresentati, diventino centrali più di prima nella politica di Draghi. Fa riflettere, comunque, il Nord sovra rappresentato, sempre più luogo dell’economia, della formazione, delle organizzazioni efficienti, della presenza dei centri di ricerca e il Sud marginale in tutti i settori, con una classe dirigente, quella politica, economica, sindacale e della cultura che non riesce a dargli voce, non è in grado, in queste settimane, di elaborare una proposta per la utilizzazione delle risorse del recovery plan. Il Movimento Cinque stelle in Sicilia ha avuto il 48 per cento dei voti nelle elezioni del 2018 e, tuttavia, i suoi eletti per lo più sono rimasti anonimi, personaggi che non si sono mai intestati una battaglia di qualche importanza, esaurendo il loro impegno nel pur utile reddito di cittadinanza. Dopo le elezioni, il Movimento ha subito abbandoni e scissioni anche in Assemblea regionale, restando un’incompiuta con una identità non ben definita e sempre più in crisi nel rapporto con i suoi vecchi elettori. Tuttavia, per quanto ridotto potrà essere in futuro il suo consenso elettorale, sarà sempre una forza consistente in grado di esercitare un ruolo importante, a condizione che sappia scegliere una posizione definita e credibile e che si apra ad alleanze stabili e omogenee.
Esce dal governo il democratico Peppe Provenzano, che aveva fatto bene al ministero per il Mezzogiorno e non entra il grillino Cancelleri, entrambi indicati come possibili candidati alla presidenza della Regione di una alleanza di centro sinistra per le prossime elezioni. La Sicilia a Roma rimane senza una propria voce non solo per l’assenza di siciliani nel governo, ma perché è colpita da afasia in tutti i campi, è marginale rispetto alle zone più sviluppate, poco o nulla produce nei settori della moderna economia, da tempo è isterilita anche in quello della cultura. Quando ormai la bolla che gonfiò i Cinque stelle si è ridotta, quando, nel volgere di pochissimo tempo, l’illusione o la speranza che quel movimento potesse intercettare i bisogni di tanti siciliani, specialmente giovani, e di rappresentarli facendosi carico dei loro problemi, si è notevolmente indebolita, c’è da chiedersi chi potrà intestarsi e incanalare il malessere esistente da anni e aggravato dalla pandemia, un malessere che, specialmente nelle periferie delle grandi città, si sarebbe costretti a fronteggiare con l’ulteriore estensione dei sussidi, per evitare che sfoci in manifestazioni di ribellismo.
Per quanto riguarda la prospettiva politica, in attesa delle scelte del governo Draghi, che è sperabile capisca finalmente l’importanza fondamentale della coesione sociale del Paese e del contributo che lo sviluppo del Sud può dare a tutta l’economia nazionale, la Sicilia, per la crisi dei Cinque stelle e per la permanente fragilità del Partito democratico, resta una enorme prateria per la destra.