Fino a un mese fa, Meloni era l’Ingrata: quella che, pur dovendogli tutto, non gli riconosceva nulla. Agli occhi del Cavaliere Giorgia risultava (parliamo di metà febbraio, mica di chissà quando) una donna arrogante, a volte prepotente, gonfia di risentimenti, nutrita di convinzioni illiberali, insomma una fascistella che aveva il torto di snobbare lo statista Berlusconi nonostante lui fosse disposto a darle preziosi consigli dall’alto della sua esperienza. Le pareti di Arcore ancora vibrano per le invettive del padrone di casa contro i “suoi” cinque ministri accusati di inginocchiarsi al cospetto della premier, di subirne il temperamento volitivo comportandosi da autentici “cacasotto”.
Il più bersagliato era Antonio Tajani, considerato una specie di Giuda che aveva tradito pur di fare il ministro degli Esteri. Conoscendo i propri polli, Silvio avrebbe voluto mettere al governo gente grintosa tipo Licia Ronzulli, ma Meloni glielo aveva impedito dopo un’epica battaglia di poltrone. E dunque lui, per non finire nell’angolo, aveva dato ordine ai suoi “guastatori” di distinguersi a ogni costo, di picchiare i pugni sul tavolo, di vendere cara la pelle nelle mille trattative. Chi sospetta che fossero loro a imporre una linea divisiva bullizzando l’anziano leader è completamente fuori strada: il capo degli “ultrà” era Berlusconi. Lui e nessun altro. Capitava addirittura che fosse il fedelissimo Giorgio Mulè, oppure il capogruppo Alessandro Cattaneo, o la stessa Ronzulli a frenarlo, “no presidente, qui non possiamo, questo sarebbe davvero troppo, faremmo cadere il governo”. Insomma: per volontà del suo fondatore, Forza Italia era diventata una spina nel fianco della Meloni. Finché all’improvviso tutto è cambiato.
Prima l’editto con cui Marta Fascina, quasi-sposa del Cav, ha intimato “basta criticare il governo”. Poi la defenestrazione di Cattaneo dopo una finta sommossa dei deputati forzisti organizzata, a quanto risulta, dalla Fascina medesima. Infine la nomina a capogruppo di Paolo Barelli, dal forte accento romanesco, che segnala il trionfale ritorno in auge di Tajani suo sponsor nonché protettore politico. Dunque un ribaltone alla corte berlusconiana che sarebbe stato totale se pure Ronzulli fosse stata cacciata; ma Gianni Letta pare abbia messo una buona parola per cui Licia resterà alla guida dei senatori “azzurri” però senza fare il bello e il cattivo tempo, espulsa da Villa San Martino, tagliata fuori dalle comunicazioni esattamente come lei faceva da filtro agli altri decidendo con chi il Capo poteva o non poteva colloquiare. Sul perché ciò sia accaduto, per giunta in modo così repentino, circolano due opposte versioni.
La prima esalta il ruolo della Fascina. Nel fantastico mondo berlusconiano nessuno, a parte Silvio, ha concentrato così tanto potere. Francesca Pascale, quando era fidanzata del leader, non entrò mai in politica; Licia Ronzulli faceva politica, secondo alcuni perfino troppa, ma non è stata mai fidanzata; invece Marta somma entrambe le funzioni, di bastone della vecchiaia e di referente nel partito. C’è chi già la paragona a Suor Pascalina, l’angelo custode di Papa Pio XII che verso la fine ne dettava l’agenda, o più prosaicamente a Rosy Mauro, l’ex sindacalista diventata “badante” di Umberto Bossi quando il Senatur si ammalò, salvo poi approfittarne per creargli intorno un “cerchio magico” di cui cui face parte anche Renzo, figlio di Bossi, meglio noto come il Trota. Al di là dei raffronti storici, la Fascina esercita sul consorte un influsso totale nonostante i 53 anni in meno, o forse proprio per quello. Berlusconi lo descrivono come “soggiogato”. Malelingue sostengono che, ogni qualvolta l’ex premier tenta di contenerla, Marta minaccia di fare le valigie e allora lui ingrana la retromarcia; stavolta lei gli avrebbe imposto il cambio di linea come pretesto per liquidare Cattaneo, Ronzulli e tutti quanti ne ostacolavano l’ascesa. Berlusconi si sarebbe ancora una volta piegato, questa volta per sempre. Nulla di politico, dunque, semmai un mix di fragilità e ambizione.
Una seconda teoria s’intitola: “L’auto-golpe”. Ipotizza che a liquidare i fedelissimi del Cav sia stato il Cav medesimo con un colpo di Stato contro se stesso, sulla falsariga di quello che nel 1992 aveva avuto protagonista il presidente peruviano Alberto Fujimori. Motivo della messinscena: le solite vicende giudiziarie che da trent’anni affliggono l’ex premier. Il 13 febbraio scorso, guarda combinazione, il governo Meloni si è ritirato dal processo Ruby ter dov’era parte civile contro il Caimano, spianando la strada alla sua assoluzione; magari sarebbe arrivata lo stesso, visto gli errori commessi dalla pubblica accusa, ma così Berlusconi è andato sul velluto. In cambio del favore, l’uomo ha silenziato con una “purga” staliniana le critiche al governo Meloni. In un colpo solo ha reso felici, nell’ordine: se stesso; la semi-consorte, elevata al rango di vice; l’azienda di famiglia che campa di concessioni governative; Giorgia Meloni, la quale da Forza Italia avrà qualche grattacapo in meno. A rimetterci sono stati quanti gli hanno dato retta. Morale della vicenda: il berlusconismo sarà pure agli sgoccioli, come si sostiene da almeno un decennio, ma non s’è mai vista una storia con così tanti finali.