Ricordate Antonio Ingroia? E’ stato per anni la punta di diamante dell’antimafia chiodata. Con le sue inchieste ha fatto tremare i polsi agli uomini più potenti della Repubblica. Ha messo sotto torchio Marcello Dell’Utri e Bruno Contrada. Ha interrogato Silvio Berlusconi e Nicola Mancino. Per chiarire i retroscena della scellerata Trattativa tra lo Stato e i boss di Cosa Nostra ha passato a setaccio parole e opere di tre presidenti della Repubblica: da Oscar Luigi Scalfaro a Carlo Azelio Ciampi fino a Giorgio Napolitano. Ha indagato persino sui narcos annidati nella fragile repubblica del Guatemala. E’ stato erede di Giovanni Falcone e allievo di Paolo Borsellino. E’ cresciuto alla scuola di Gian Carlo Caselli. Ha sgominato cupole e cosche. Ha sbattuto in galera padrini e picciotti. Ha sequestrato patrimoni milionari. E’ stato il pubblico ministero più applaudito d’Italia, il magistrato di accusa più intervistato dai giornali e dalle televisioni di mezzo mondo. Bene. Poi, nel settembre del 2020, con quel suo medagliere così pieno di successi, si ritrova per un capriccio del destino a Campobello di Mazara. Nel piccolo regno blindato e incontrastato di Matteo Messina Denaro, il boss delle stragi, l’alleato dei sanguinari corleonesi di Totò Riina, il latitante che tutte le forze dell’ordine ricercano spasmodicamente da quasi trent’anni.
Ingroia – che nel 2013 ha lasciato la magistratura per lanciarsi nelle sfide della politica – aspira a diventare sindaco e avvia una capillare campagna elettorale per la conquista del comune. Batte quasi tutte le strade di Campobello. Stringe mani, fa comizi, tiene riunioni ristrette e riunioni allargate. Mobilita giovani e meno giovani, amici e simpatizzanti. Va nelle scuole. Recluta ogni sincero democratico. Predica la legalità. Promette che, quando si insedierà al Municipio, sconfiggerà ogni corruzione, ogni mafia, ogni indecenza, ogni complicità.
Ma non ce l’ha fatta. L’aureola di principe dell’antimafia non gli è bastata per tagliare il traguardo: è stato scelto solo dal 19 per cento degli elettori. Ha stravinto Giuseppe Castiglione, il sindaco uscente. Ma una qualche fantasia si impone. Chissà se, nei giorni della campagna elettorale di Ingroia, Matteo Messina Denaro era già nel covo di Campobello, magari a pochi metri da vico San Vito e dal rifugio intestato al geometra Andrea Bonafede. Non sarebbe stato facile, neppure per la più astuta volpe dell’antimafia, riconoscerlo. La primula rossa più ricercata del mondo avrà anche avuto protezioni da terzo livello, sarà stato anche avvolto da una coltre di paura e di omertà, ma per rendersi invisibile sapeva che la maschera più sicura per i latitanti è quella dell’uomo qualunque. Per la chemioterapia si metteva ogni lunedì mattina in fila alla “Maddalena” di Palermo. Dialogava con gli altri pazienti, regalava bidoncini d’olio agli infermieri, civettava con le signore, sorrideva ai medici, dava coraggio a se stesso e agli altri sfortunati che popolavano il reparto. Viveva quel che gli restava della vita come un borghese piccolo piccolo. E perciò insospettabile. Nessuno, nemmeno lo scaltro e navigato Ingroia, avrebbe facilmente notato – nelle movenze identiche alle quelle di altri cento o mille abitanti di Campobello – qualcosa di strano. Nessuno avrebbe azzardato una domanda indiscreta. Perché quell’uomo recitava ogni giorno il copione della più anonima insignificanza. Andava al supermercato o in farmacia, frequentava i negozi, andava dal barbiere per tagliare i capelli. La gente lo vedeva, lo incontrava: buongiorno e buona sera. Ricordate la trama della “Lettera rubata”? Era lì, davanti a tutti ma nessuno la notava. Un prodigio. Adgar Allan Poe, autore del racconto, amava parlare di “invisibilità dell’evidenza”.