I tribunali e le corti di assise ormai non bastano più. La nuova parola d’ordine è una sola: “andare oltre”. Certo la magistratura ordinaria, soprattutto quella che sa ascoltare il cuore e l’anima del popolo sovrano, può anche sfornare le sentenze più clamorose e imprevedibili: è successo a Palermo, dove il collegio presieduto da Alfredo Montalto, ha accertato che la Trattativa tra i boss di Cosa nostra e alcuni pezzi dello Stato ci fu e ha condannato a pene pesantissime due ex generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, colpevoli di avere tentato di arginare il sangue delle stragi mafiose; ed è successo pure a Caltanissetta, al processo chiamato “Borsellino quater”, al termine del quale è stato scritto, nero su bianco, che una accozzaglia di investigatori infedeli, seguiti da magistrati a dir poco distratti, avrebbe orchestrato “un depistaggio colossale” per nascondere le “indicibili verità” sui registi occulti dell’attentato di via D’Amelio.
Ma le sentenze, si sa, possono anche essere ribaltate in appello o addirittura cancellate da quel tempio della forma che è la Corte di Cassazione. E allora meglio cogliere lo spirito del tempo e costruire subito, sic et nunc, su quelle verità sottoscritte dai giudici di primo grado un teatrino istituzionale, fatto apposta per “andare oltre” e per “meglio capire le responsabilità storiche e politiche che i processi di Palermo e Caltanissetta non hanno potuto o voluto portare allo scoperto”. Ufficialmente, quel teatrino – invocato ieri non a caso da Antonio Ingroia, che alla Trattativa ha dedicato gli anni più fulgidi e promettenti della sua carriera di procuratore aggiunto di Palermo – si chiama commissione d’inchiesta e dovrebbe istituirla il nuovo Parlamento. La richiesta è stata avanzata formalmente da Ingroia al presidente della Camera, Roberto Fico, e tutto lascia prevedere che prima o poi un palcoscenico, sul quale disvelare le trame oscure della Prima e della Seconda Repubblica, sarà allestito. Potrà salirci chiunque. E chiunque potrà narrare miserie e scelleratezze dei governi che, dal dopoguerra in poi, hanno coltivato complicità e collusioni con i poteri criminali. Sarà un bagno rigeneratore nel grande mare dei sospetti e delle dicerie, degli indizi e delle accuse che nessuna magistratura ha mai provato e punito.
Sarà una sagra dello sputtanamento ma anche delle rivincite: vuoi nei confronti di Giorgio Napolitano, che si oppose con tutte le forze alla pubblicazione delle sue telefonate con Nicola Mancino, si appellò alla Corte costituzionale e vinse la partita; oppure nei confronti di Silvio Berlusconi che Ingroia, e tanti altri pm come Ingroia, hanno cercato in ogni modo di mascariare come mandante delle più sanguinarie nefandezze mafiose ma è sempre riuscito a tirarsi fuori dai guai perché nei fascicoli si erano accumulati tanti pregiudizi e pochissimi riscontri. E sarà pure, per la gioia di grandi e piccini, il trionfo del circo mediatico-giudiziario: un circo a tre piste dove svolazzeranno informative riservate e verbali segreti, intercettazioni avariate e non più segretate, rivelazioni di pentiti veri e pataccari di lungo corso. Tutti pronti per un nuovo e più fantasioso spettacolo della verità.
Gli stessi che hanno deposto nella prima pista, quella dei tribunali, saranno chiamati nella seconda pista, quella della commissione parlamentare, e invitati ad ampliare le proprie dichiarazioni, a rispondere a nuove domande, a formulare nuove ipotesi, a suggerire nuove piste, a sanare vecchie contraddizioni e a dire il non detto. E se qualcosa non andrà per il verso giusto si potrà sempre rimediare nella terza pista, quella delle interviste esclusive o del libro, ovviamente scottante, scritto dal magistrato coraggioso per dire agli altri magistrati, ovviamente meno coraggiosi, che dietro a quell’intreccio scellerato si intravedevano già colpe e volti che sono stati volutamente occultati per timidezza, codardia e sudditanza al potere politico.
Prepariamoci, dunque. Dopo la commissione costituita per fare luce, si dice così, sulle carneficine attribuite al terrorismo degli anni Settanta e Ottanta, dal treno di Bologna all’aereo esploso nel cielo di Ustica – “Stragi, dica”, così rispondeva la centralinista di palazzo San Macuto – e dopo la commissione messa in piedi con il lodevole proposito di rivelare i retroscena del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, con ogni probabilità avremo la Commissione Trame Oscure. La richiesta che Ingroia, certamente a nome dei puri e duri dell’avanguardia antimafiosa, ha avanzato al presidente Fico difficilmente cadrà nel vuoto.
I Cinque Stelle, che in Parlamento sono la forza di maggioranza relativa, ne avrebbero due utilità immediate. Intanto finirebbero per sanare la frattura che si creata con quel mondo dopo che il neo ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha lasciato a piedi – cioè senza un incarico di alta responsabilità – Nino Di Matteo, il magistrato più scortato d’Italia, al quale Beppe Grillo in persona aveva addirittura promesso la più alta poltrona di via Arenula. Ma non solo. La commissione d’inchiesta, per un movimento che ha trasformato il moralismo in un formidabile strumento elettorale, potrebbe essere un’opportunità in più per regolare i conti con la vecchia politica, con il vecchio sistema, con i vecchi partiti. Tanto, l’unica cosa certa è che la commissione, come tutte le altre che sono transitate da palazzo San Macuto, non approderà a nessuna certezza. Perché alla fine ci saranno almeno due relazioni, quella di maggioranza e quella di minoranza, e ciascuna delle due parti difficilmente rinuncierà alla possibilità di riscrivere, a proprio uso e consumo, la storia d’Italia.
Per rendersene conto basta ripercorrere i fatti e i misfatti delle commissioni bicamerali antimafia che per cinquantacinque anni, di legislatura in legislatura, si sono succedute nello stesso palazzo con la nobile intenzione di intimorire i reprobi e di incoraggiare, all’un tempo, la costruzione di una società più onesta e più equa, bella quasi come una città città del sole. Di quelle speranze e di quelle intenzioni sono rimasti soltanto infiniti scaffali pieni di verbali e documenti per trasportare i quali non basterebbe un camion con rimorchio.
Tempo e denaro buttati al vento. Dopo gli ardori delle prime inchieste e dei primi viaggi in Sicilia, dopo la saggia determinazione di alcune presidenze – prima fra tutte quella di Gerardo Chiaromonte – improntate all’affermazione dello stato di diritto contro ogni tentazione emergenziale e inquisitoria, il fuoco dell’antimafia ha finito per consumare ogni slancio; al punto che l’ultima bicamerale, quella presieduta da Rosy Bindi, ha finito per consegnare alla storia un vasto campionario di grettezze politiche, contrabbandate per chissà quale verità.
Che fine farà la Commissione Trame Oscure, se mai il Parlamento deciderà di costituirla, dopo avere cercato per i prossimi cinque anni quelle complicità e quelle coperture politiche che né i tribunali né le corti d’assise sono riusciti finora a dimostrare? “La verità né venne né se ne andò: mutò l’errore”, si legge in un verso malinconico di Fernando Pessoa. Ma Fico, probabilmente, ancora non lo sa.